20 città africane tra viaggi e fotografia

A Stranger’s Pose ✏ Emmanuel Iduma

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CATEGORIE: Fotografia  / Narrativa non fiction  / Viaggio

Tempo di lettura: 6 minuti

  • Emmanuel Iduma, Afrologist

A Stranger’s Pose, Emmanuel Iduma, Cassava Republic Press, 2018, prefazione a cura di Teju Cole.

Immaginate un viaggio tra 20 città africane diverse. Immaginate che questo viaggio venga raccontato, e che a raccontarlo siano parole e fotografieOra potete smettere di immaginare. Perché quel libro esiste ed è “A Stranger’s Pose“.

La prima volta che mi sono imbattuta in questo libro è stata quando ho letto un’intervista a Emmanuel Iduma, il suo autore. Nell’intervista a cuore aperto rilasciata per Africa is a Country (e tradotta da noi in italiano qui), emergono diverse sfaccettature di quest’opera.

È, sì, un libro di viaggio, di fotografia, ma anche di emozioni. Emmanuel Iduma regala una scrittura appassionante e per niente scontata. È questo quello che si capisce sin dalle prime pagine di questo bellissimo libro. E dalla prefazione a cura di Teju Cole E dalla passione dell’autore nel raccontare il processo creativo che l’ha portato alla sua stesura. Iduma unisce narrativa di viaggio e fotografia. Riesce così a creare una dimensione unica. Il lettore viene catapultato nelle terre che visita e le vede attraverso i suoi occhi.

A Stranger’s pose è il libro di viaggio per antonomasia. È tutto ciò che si può volere dalla categoria, e molto di più. Il tutto senza essere “il solito libro di viaggio“. Il talento di Iduma sta, secondo me, nel prendere la sua esperienza e raccontarla apertamente, senza cadere nel racconto scontato di ciò che ha vissuto. In più di un punto del suo libro, infatti, il lettore non sa in quale parte dell’Africa si trova, ma viene immerso totalmente nell’esperienza. Molte altre volte, invece, il posto non è altro che la scusa per parlare dell’esperienza.

«I wore my language deficiency like a veneer, like gauze, like stratum. Underneath was tangible communication, out of reach. Yet I did not bemoan this. My deficiency was benign in comparison. For migrants arriving in Morocco from countries south of the Sahara who have to make a living or wait almost interminably for a better life, to acculturate is to survive. Without the knowledge of French or Moroccan Arabic, they face the belligerent wall of inadmissibility, confined to the fringes of their new society.»

«Indossavo il mio linguaggio come una patina, una garza, uno strato. Al di sotto era comunicazione tangibile, fuori portata. Eppure non mi rammaricavo di questo. La mia mancanza era benigna in confronto. Per i migranti che arrivano in Marocco da Paesi a Sud del Sahara, che devono trovare un modo per sostentarsi o aspettare quasi interminabilmente una vita migliore, acculturarsi vuol dire sopravvivere. Senza la conoscenza del francese o dell’arabo marocchino, affrontano un muro belligerante di inammissibilità, confinati ai margini della loro nuova società.» (Traduzione mia)

Emmanuel Iduma parla spesso delle difficoltà linguistiche incontrate.

Parla spesso dei rapporti umani che si creano nel corso dei suoi brevi soggiorni. Analizza spesso il suo sentirsi così estraneo a tutti i posti in cui si trova. La scelta di unire la fotografia alla scrittura sembra il suo modo per immortalare in un modo più completo la sua esperienza. Come se, scegliendo o l’una o l’altra modalità, si potesse solo essere parziali. E questo forse più per le persone incontrate che per i posti visitati.

«I wonder about how, on certain occasions, in the course of travels in which nothing is certain, to pose for a photograph is to acknowledge the possibility of respite.
(…)
At the moment of posing, they make themselves into the people they want to be. They ask to be photographed as if, through a camera and a willing photographer, they can represent themselves as they see fit. And in being photographed, in the creation of a document of their pose, they affirm their place in the city. Left with photographs I had no need for, except perhaps to serve as a reminder to indicate how, were I less restless, I might claim a place.»

«Rifletto su come, in certe occasioni, nel corso di viaggi in cui nulla è certo, posare per una fotografia sia riconoscere la possibilità di una tregua.
(…)
Nel momento di posare, si trasformano nelle persone che vorrebbero essere. Chiedono di essere fotografati come se, attraverso una macchina fotografica e un fotografo disponibile, potessero rappresentare se stessi integrati [nella società]. E nell’essere fotografati, nella creazione del documento della loro posa, affermano il loro posto nella città. Lasciato con fotografie di cui non ho bisogno, eccetto forse per ricordarmi come, meno irrequieto, avrei potuto reclamare un posto.» (Traduzione mia)

Ho adorato questo libro dalla prima all’ultima pagina. Il punto di vista non è mai scontato. E ho trovato incredibile l’espediente di utilizzare tanti registri narrativi diversi. A ognuno il compito di parlare di cose ed esperienze differenti. Iduma usa un linguaggio descrittivo per i posti. Poi passa a uno onirico per raccontare i rapporti con le persone conosciute nel viaggio. A tutto questo, poi, unisce anche delle lettere. La scusa perfetta per analizzare ancora più approfonditamente la sua esperienza.

Vi consiglio tantissimo la lettura di A Stranger’s Pose. Per tutti i motivi elencati fino a qui e per le perle contenute al suo interno. Come questa:

«The only thing a man needs is a suitcase and a soul.»

«Le uniche cose di cui un uomo ha bisogno sono una valigia e un’anima.» (Traduzione mia)

E con questo libro Emmanuel Iduma riesce a fornire entrambe le cose. ✎

A Stranger’s Pose, sfortunatamente, è al momento solo in lingua inglese. Ecco, quindi, che su Afrologist iniziamo così una serie di recensioni di libri che ci piacerebbe venissero tradotti in italiano. Con l’augurio che il nostro appello venga raccolto, e che libri preziosi come questo vengano resi disponibili a un pubblico sempre più ampio.

Incipit

Emmanuel Iduma, Afrologist

«On impulse, before anything else, in a white E350 Ford van I drive into Mauritania at sunset. I see a dune land, and then houses built as if to imitate matchboxes. Today Eid ul-Fitr begins. Men are walking back from mosques, women and children trailing them, sure-footed and celebratory. I see all the with my nose pressed to the window. The men wear long, loose-fitting garments, mostly white, sometimes light blue. I watch them from behind, and think of the word swashbuckle. I am moved by these swaggering bodies, dressed in their finest, walking to houses that look only seven feet high. I envy the ardour in their gait, a lack of hurry, as if by walking they possess a piece of the earth.
I want to be these men.»

«D’impulso, prima di qualsiasi altra cosa, in un van Ford E350 guido per entrare in Mauritania al tramonto. Vedo una terra fatta di dune, e poi case costruite come a imitare scatole di fiammiferi. Oggi comincia l’Eid ul-Fitr. Gli uomini stanno tornando dalle moschee, donne e bambini li seguono, con passo sicuro e celebrativo. Vedo tutto con il mio naso schiacciato contro il finestrino. Gli uomini indossano lunghe, morbide tuniche, quasi tutte bianche, alcune azzurre. Li guardo da dietro e penso alla parola swashbuckle. Sono mosso da questi corpi ondeggianti, vestiti al loro meglio, che camminano verso delle case che sembrano alte solo 7 piedi. Invidio l’ardore della loro andatura, una mancanza di fretta, come se camminando possedessero un pezzo della terra.
Voglio essere questi uomini.» (Traduzione mia)

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