Non è difficile tracciare la nostra genealogia. A partire dagli anni ’60, i giovani, dotati e senza un soldo lasciarono l’Africa per perseguire una più alta istruzione e la felicità all’estero. Uno studio condotto nel 1999 stimò che tra il 1960 e il 1975 circa 27.000 africani altamente qualificati lasciarono il Continente per l’Occidente. Tra il 1975 e il 1984, il numero arrivò a 40.000 e poi raddoppiò di nuovo nel 1987, rappresentando circa il 30% della forza lavoro altamente qualificata d’Africa. Non sorprende che tra le destinazioni più popolari per questi emigranti ci fossero Canada, Inghilterra e Stati Uniti; ma le politiche della Guerra Fredda produssero anche improbabili opportunità di borse di studio in nazioni del Blocco Orientale come la Polonia.
Tre decenni dopo, questa tribù disseminata di farmacisti, fisici, medici (e di eccentrici poligami) aveva montato un campo base in tutto il mondo. Le caricature sono familiari. Il professore di fisica nigeriano con il maglione Coogi d’imitazione; il maratoneta keniano dalle lunghe gambe e la R moscia; il gambiano robusto che intreccia capelli in una casa che odora di Kanekalon [fibra sintetica] bruciata. Anche coloro che non hanno familiarità con le extension sintetiche possono rammentare un’immagine di un immigrato africano con il minimo suggerimento di cultura pop: ‘Hello, Babar’ di Eddie Murphy. Ma da qualche parte tra l’uscita nel 1988 de Il principe cerca moglie e l’incoronazione nel 2001 di una Miss Mondo nigeriana, l’immagine generale dei giovani africani in Occidente si è trasformata da bizzarra a splendida. Lasciando fuori tutte le dolorose domande della condiscendenza culturale in quell’amato film, uno si chiede: cosa è successo negli anni intercorsi tra il Principe Akeem e la Regina Agbani?
Una risposta è: l’adolescenza. Gli africani che hanno lasciato l’Africa tra il 1960 e il 1975 ebbero bambini, e molti oltreoceano. Alcuni di noi furono tirati su su sponde africane e poi inviati in Occidente per una più alta istruzione; altri nacquero in climi molto più freddi e mandati a casa per re-indottrinamento culturale. In entrambi i casi, noi passammo gli anni ’80 inseguendo approvazione, mangiando fufu a feste di famiglia e ascoltando gli adulti discutere di politica. Con il cambio di secolo (il recente), stavamo eguagliando i nostri genitori in numero di lauree e/o raggiungendo cose che la nostra ‘gente’ in senso lato poteva solo sognare. Questa nuova demografia – dispersa tra Brixton, Bethesda, Boston, Berlino – è diventata maggiorenne nel ventunesimo secolo, ridefinendo cosa significa essere africani. Dove i nostri genitori hanno ricercato la sicurezza in professioni tradizionali come la medicina, la legge, il settore bancario, l’ingegneria, noi ci stiamo ramificando in settori come quello dei media, della politica, della musica, del capitale di rischio, del design. Non siamo nemmeno timidi nell’esprimere le nostre influenze africane (così come sono) nel nostro lavoro. Artisti come Keziah Jones, il fondatore ed editore di Trace Claude Gruzintsky, l’architetto David Adjaye, la romanziera Chimamanda Adichie – tutti esemplificano cosa Gruzintsky chiama gli ‘africani del ventunesimo secolo’.
Cosa distingue questa moltitudine e i suoi simili (in Occidente e a casa) è una volontà di complicare l’Africa – cioè, di impegnarsi, di criticare e celebrare le parti di Africa che significano di più per loro. Forse cosa più tipizza una coscienza Afropolitana è il rifiuto dell’over-semplificazione; lo sforzo di capire cos’è malato in Africa a fianco al desiderio di onorare cosa è magnifico, unico. Invece di essenzializzare l’entità geografica, noi cerchiamo di comprendere la complessità culturale; di onorare il legame intellettuale e spirituale; e di sostenere le culture dei nostri genitori.
Per noi, essere africani deve significare qualcosa. I ritratti dei media (la guerra, la fame) invece no. E nemmeno il tropo del Nuovo Mondo del dottore goffo e nerazzurro. La maggioranza di noi è cresciuta cosciente del ‘provenire da’ un luogo segnato, di avere cognomi di nazioni collegate a mancanza, corruzione. Pochi di noi sono scampati a quegli epiteti maligni e ‘gratta-didietro’ [che fanno venire il prurito], e ancora meno provano ancora quel senso di vergogna quando visitano i villaggi paterni. Se fossimo vergognati di noi stessi per il fatto di non conoscere di più della cultura dei nostri genitori, o se fossimo vergognati del fatto che quella cultura non fosse più ‘sviluppata’ può non essere chiaro. Cos’è certo è la misura in cui il moderno adolescente africano è incaricato di forgiare un senso di sé da fonti ampiamente disparate. Non lo saprai mai guardando quegli avvocati in ghingeri in studi legali internazionali, ma la maggioranza di loro un tempo era estremamente cosciente del fatto di essere così ‘nel mezzo’. Da un lato, avere la pelle marrone senza un fondamento del senso di ‘negritudine’; dall’altro lato essere spesso stuzzicati dai membri della famiglia africana per il fatto di ‘comportarsi da bianchi’ – il bambino Afropolitano può capire cosa definisco ‘lost in transnation‘ [perso nello spazio tra le nazioni].
Ultimamente, l’Afropolitano deve formarsi un’identità lungo almeno tre dimensioni: nazionale, l’appartenenza etnica, culturale – con sottili tensioni tra esse. Mentre i nostri genitori potevano rivendicare una nazione come casa, noi dobbiamo definire la nostra relazione con i luoghi in cui viviamo; come siamo (o agiamo da) inglesi o americani è in parte una questione di affetto. Spesso inconsciamente, e nel corso del tempo, scegliamo quali pezzettini di identità nazionale (dal passaporto alla pronuncia) internalizziamo come centrali nelle nostre personalità. Così, allo stesso modo, il modo con cui vediamo la nostra appartenenza etnica – sia che siamo neri o misti o nessuna delle precedenti – è una questione di politica, più che di pigmentazione; non tutti noi rivendichiamo l’essere neri. Spesso questo è connesso al modo con cui siamo stati cresciuti, se vicino ad altre persone dalla pelle marrone (per esempio neri americani) o meno. Infine, come concepiamo l’appartenenza etnica concorderà con il dove localizziamo noi stessi nella storia che produsse la ‘negritudine’ e i processi politici che continuano a darle forma.
C’è poi quel profondo abisso della Cultura, vagamente definito nel migliore dei casi. Uno deve decidere cosa comprende la ‘cultura Africana’ oltre la zuppa piccante e la pietà filiale. Il progetto può essere completamente incomprensibile – sia che uno viva in una nazione africana o no. Ma il processo è arricchente, per quanto espande la propria prospettiva di base sulla nazione e il sé. Se non altro, l’Afropolitano sa che nulla è nettamente bianco o nero; che l’ ‘essere’ qualcosa è questione di essere sicuri di chi siamo unicamente. ‘Essere’ nigeriani significa appartenere ad una nazione appassionata; essere yoruba, essere eredi di una profondità spirituale; essere americani, ascriversi ad un’ampiezza culturale; essere inglesi, passare oltre i costumi velocemente. Così, questo è ciò che significa per me – e che è il privilegio degli Afropolitani. L’accettazione della complessità comune alla maggioranza delle culture africane non è persa a causa dei suoi dissipatori. Senza quel pensiero intrinsecamente multi-dimensionale, non potremmo dare un senso a noi stessi.
E se tutto suona un po’ auto-compiacimento, un po’ ‘non-siamo-noi-le-persone-maledettamente-più-fighe-sulla-Terra?’ – io dico: sì, è così, necessariamente. È tempo che l’africano si alzi in piedi. Non c’è nulla di perfetto in questa formulazione; per tutti i nostri Adjaye e Adichie, c’è una fuga di cervelli a casa. La maggioranza degli Afropolitani potrebbero servire meglio l’Africa in Africa che in al Medicine Bar di giovedì. Ad essere sinceri, un giusto numero di professionisti africani stanno tornando; e c’è consapevolezza tra coloro che rimangono, un’acuta coscienza in questa covata di troppo-figo-per-le-scuole del fatto che c’è del lavoro da fare. Ci son coloro tra di noi che si chiedono sul punto di piangere: dove la prossima volta, in Africa? Quando le tribù sparpagliatesi ritorneranno? Quando rimpatrieranno i talenti? Quale stile di vista aspetta i giovani professionisti a casa? Come investire nel futuro dell’Africa? Le prospettive possono sembrare fosche a volte. Le risposte non sono imminenti. Ma se c’è mai stato un gruppo che possa capirci qualcosa, è questo qui, non timoroso delle domande.»✎
[Grassetti e traduzione miei. Due note: ho scelto di sostituire il termine inglese ‘race’, lett. ‘razza’ con ‘appartenenza etnica’ data la diversa accezione in italiano; essendo ‘Afropolitan’ un neologismo, ho scelto di mantenere la maiuscola anche nell’italiano Afropolitani. Per segnalazioni di errori o imprecisioni nella traduzione, contattatemi, grazie.]
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