Cairo, 2011. Una Repubblica come se. L’Egitto messo a nudo, gli egiziani di fronte a un bivio storico
Sono corso verso il Nilo ✏ ‘Ala Al-Aswani
Sono corso verso il Nilo, ‘Ala Al-Aswani, Feltrinelli, 2018, traduzione dall’arabo di Elisabetta Bartuli e Cristina Dozio, titolo originale: جمهورية كأنّ (Jumhuriyya ka-anna).
Al-Aswani nasce al Cairo nel 1957. Si laurea a Chicago in Chirurgia dentaria e torna nella megalopoli egiziana, dove apre il suo studio. Raggiunge la notorietà nel 2002 con il romanzo Palazzo Yakoubian (Feltrinelli, 2006), da cui è stato tratto un film, controverso come il libro per la presenza, nella sua trama, di una storia omosessuale. Intellettuale ed attivista inviso ai regimi, insegna Letteratura negli Stati Uniti ed è persona non gradita in patria. Sono corso verso il Nilo (Feltrinelli, 2018), in virtù dei temi affrontati, è stato pubblicato in Libano e censurato in quasi tutti i Paesi arabi, Egitto compreso. A ottobre 2020 è uscito in Italia La dittatura. Racconto di una sindrome (Feltrinelli).
Periodo storico
2011. Soffia il vento della rivolta in diversi Paesi arabi. L’Egitto vive la sua thawra (rivolta, comunemente tradotto con rivoluzione) in modo quasi inatteso: la partecipazione popolare è imponente. Piazza Tahrir (Piazza della Liberazione) diviene il punto di ritrovo dei manifestanti uniti in nome di democrazia, rispetto e giustizia. Il movimento Kifàya (in egiziano Basta!), nato nel 2004, cerca di coordinare le proteste, cui aderiscono egiziani ed egiziane di diversa estrazione sociale e credo. Insperatamente Mubarak si dimette. È la vittoria delle rivendicazioni di piazza? Servizi segreti ed establishment politico-militare non ci stanno, e non perdono tempo: alleanze sotterranee con i Fratelli Musulmani, macchina del fango e boicottaggi contro gli autori della rivolta, censure, arresti e torture gettano l’Egitto nel caos.
Nota sulla traduzione
Molto apprezzabile la scelta delle traduttrici italiane di conservare taluni termini arabi e di arabo egiziano nel testo, senza l’aggiunta di indicazioni a piè di pagina o di un glossario a fine libro. Ogni lettore potrà agevolmente cercare in internet il significato di parole come qashta, shabka, kohl, zagharid, galabeya, khimar, niqab, izar. Saranno un buon viatico durante la lettura. Un piccolo sforzo va pur fatto per varcare la soglia di un’altra cultura!
Trame sulla trama
Cinque anni dalla morte di Giulio Regeni. Non ho potuto fare a meno di pensare a lui sin dalle prime pagine di questo romanzo che entra con prepotenza nelle viscere di un Paese, l’Egitto, minato da una corruzione generalizzata e gestito con opacità dai gruppi di potere: servizi segreti, esercito, politici-affaristi e, alla bisogna, leader religiosi.
Non vi sono cittadini nel Paese, bensì sudditi. Così era per gli antichi egizi, così è ancora per i loro discendenti. Il titolo originale del romanzo non lascia dubbio: Jumhuriyya ka-anna significa proprio “una repubblica come se, una repubblica per modo di dire”. Al-Aswani ci porta per mano nella sua Cairo alla vigilia delle rivolte del 2011. Lui stesso prese parte alle riunioni del collettivo Kifaya e alle manifestazioni di piazza, per cui dipinge con estremo realismo fatti e personaggi.
Protagonisti incrociati della narrazione e dell’attivismo di quelle adrenaliniche settimane sono Ashraf, copto benestante alle prese con una crisi matrimoniale; Dania, studentessa di Medicina dell’alta borghesia, che abbraccia gli ideali della thawra scontrandosi tra ragion di famiglia e ragion di cuore; Asma’, insegnante coraggiosa, innamorata di Mazen, ragazzo conosciuto durante le riunioni del collettivo: i due si scambiano delle email e delle lettere piene di sogni, ambizioni, paure, rabbia, sentimento; Nurhan, presentatrice televisiva che intesse relazioni con uomini potenti e maschera dietro il rispetto delle norme religiose islamiche un’interiorità viziata. Attorno a loro si muovono nell’ombra uomini dei Servizi segreti, un leader religioso molto influente – Sheykh Shamel -, uomini d’affari senza scrupoli, militari pedine del potere.
Emerge trepidante la speranza dei manifestanti di cambiare l’Egitto e la mentalità degli egiziani. In gioco non c’è banalmente il potere, bensì il desiderio disperato di un cambio di passo:
l’ingresso nella modernità, incarnata dal riconoscimento dei diritti di tutti i cittadini nessuno escluso e dall’esercizio della democrazia, dopo decenni di tirannide e sudditanza;
la lotta all’ipocrisia socio-religiosa intesa come superamento di tradizioni che pesano soprattutto sulle donne e ne compromettono la piena realizzazione, e intesa anche come abbattimento delle barriere tra egiziani di diversa estrazione sociale e diverso credo;
la foga di rivelare verità a tutti note ma sempre taciute per timore di ripercussioni: è tempo di avere il coraggio di stigmatizzare la corruzione, denunciare le violenze e sognare una vita degna di questo nome.
La thawra egiziana non ha inaugurato un’era di godimento delle libertà democratiche in Egitto. Purtroppo, a Mubarak sono succeduti prima Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, nel 2012, e poi il generale Al-Sisi, autore del colpo di Stato del 2013 e confermato alla presidenza dell’Egitto con le elezioni del 2018 in cui riportò il 97% delle preferenze. Tra arresti, delazioni e leggi anti-proteste, il pugno duro del regime militare, colpo dopo colpo, ha fatto ripiombare l’Egitto sotto una dittatura. Ecco perché thawra, che in arabo indica un “eccitamento”, una “rivolta”, è termine più adatto di rivoluzione (in arabo inqilàb, ribaltamento), che presuppone invece l’estromissione di un ancien régime e l’instaurazione di una situazione nuova, dissimile dalla precedente.
Il clima pesante che si respira in Egitto lo si intuisce dalla cronaca degli arresti e dei soprusi. Dietro i casi tristemente famosi del ricercatore Giulio Regeni e dell’attivista per i diritti umani Patrick Zaki, quest’ultimo in carcere da quasi un anno per propaganda antigovernativa e istigazione al terrorismo, vi sono quelli di centinaia di egiziani che hanno anch’essi la sola colpa di esternare idee diverse da quelle di chi è al comando. Altri casi, meno politici in apparenza, riguardano delle ragazze, influencer cosiddette, che usano i social media per esprimersi. Haneen Hossam, Mowada Al-Adham, Menna Abdel Aziz e Hadeer Al-Hady sono tra le giovani arrestate e multate nel 2020 per attentato alla moralità sociale e alla famiglia tradizionale o per incitamento alla dissolutezza.
Nei loro video non c’è niente di scandaloso secondo i nostri parametri. Secondo i parametri degli egiziani che le hanno ricoperte di improperi online evidentemente sì. Per giunta, una di loro ha subito l’arresto per aver pubblicamente denunciato una violenza di gruppo. Salma Al-Shimi, modella, è stata invece arrestata per deturpazione di beni culturali: galeotto fu uno scatto in attillato costume egizio di fronte ad una piramide. La grettezza del regime militare si concilia con una diffusa mentalità retrograda, perfetto connubio tra patriarcalismo e religione: la donna è nata per fare la madre, badare al focolare e obbedire. Tutto ciò che esula da questi tre ambiti è disordine, mette in pericolo l’intera comunità.
Triste quadro. La thawra, sostenuta da migliaia di donne e condotta anche in nome dei loro diritti, sembra lontanissima. Eppure, poiché gutta cavat lapidem, non dobbiamo dimenticare che quell’esperienza di piazza del 2011 ha lasciato un’eredità preziosa in termini di consapevolezza: gli egiziani resistono sotto il peso dell’autoritarismo, ma sanno che qualcosa di diverso è possibile e visibile all’orizzonte. Come ha detto Al-Aswani in una recente intervista, «le persone non considerano più l’autorità come indiscutibile, vedono la religione come tale, danno valore ai diritti delle donne. Abbiamo un nuovo modo di pensare e una nuova visione della vita» (Adnkronos, 25/01/21). Questo sì, in fondo, che ci autorizza a chiamare quella del 2011 Rivoluzione! Ha segnato in molte coscienze un punto di non ritorno, ha creato una breccia nella piramide delle disuguaglianze e delle soperchierie sino a quel momento subite e accettate supinamente.✎
Incipit
«Il generale Ahmed ‘Alwani non ha bisogno che suoni la sveglia. Non appena riecheggia il richiamo alla preghiera dell’alba si sveglia per conto suo. Gli occhi aperti, resta a letto a bisbigliare tra sé le parole che sente, poi si alza, va in bagno, compie rapido le abluzioni rituali, si dà una pettinata alla capigliatura accuratamente tinta di nero (fatte salve due sottili strisce simmetriche, una a destra e una a sinistra, che lascia bianche), si infila un’elegante tuta da ginnastica e raggiunge la vicina moschea.»
Ala Al-Aswani, arabo, Egitto, evidenza, Feltrinelli, Nord Africa, Primavere arabe
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