Chinelo Okparanta e le donne forti dei suoi racconti

La felicità è come l’acqua ✏ Chinelo Okparanta

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Racconti

Tempo di lettura: 6 minuti

  • Chinelo Okparanta, Afrologist

La felicità è come l’acqua, Chinelo Okparanta, Racconti edizioni, 2019, traduzione dall’inglese di Federica Gavioli.

La felicità è come l’acqua (Racconti Edizioni, 2019) è il titolo della raccolta di racconti con cui Chinelo Okparanta ha esordito nel panorama editoriale affermandosi in breve tempo come una delle penne più interessanti della letteratura nigeriana della diaspora. Pubblicata per la prima volta nel 2012 da Granta Books, la raccolta viene selezionata nel 2013 per la longlist del Frank O’Connor International Short Story Award e vale all’autrice la vittoria ai Lambda Literary Awards nella categoria Lesbian Fiction, successo bissato due anni più tardi con Under the Udala Trees, romanzo incentrato sull’amore osteggiato tra due ragazze, ambientato negli anni della guerra civile per la secessione del Biafra.

Una geografia precisa

Port Harcourt, capitale del Rivers State adagiata sul Delta del Niger, e Boston, capitale del Commonwealth del Massachusetts, fondata alla confluenza dei fiumi Charles e Mystic, sono gli estremi geografici entro cui scorrono le vite delle protagoniste dei racconti.

La biografia stessa di Chinelo Okparanta si è mossa tra l’infanzia a Port Harcourt e gli studi universitari paterni a Boston negli anni della sua adolescenza. Nelle tracce di questo vissuto si celano una vivida materia narrativa e una straordinaria capacità di viaggiare tra le pieghe dei conflitti familiari, tra una zuppa okra e il rumore molle di un pugno sull’occhio.

La scelta del racconto come genere letterario preferito al romanzo rappresenta per Okparanta un’importante soluzione narrativa che le consente di indagare, da varie angolature, il tema delle violenze inflitte a donne dalle storie diverse, sfuggendo alle rigidità ritmiche proprie di un romanzo di formazione che prevede un tempo di crescita e riscatto per la protagonista superiore alle dieci pagine.

Il filo sottile della speranza

Donne sfatte dalla vita e da amori sbagliati si trovano a mettere ordine nelle loro esistenze mentre lo stile dell’autrice, sulle loro anime smerigliate, plana delicato e barocco nel vergare su carta ghirigori di parole, ora violente, ora violate.

In Su Ohaeto Street, racconto che inaugura la raccolta, vanno in scena una conversione poco sentita alla fede di Geova e un matrimonio “maledetto” da questa stessa conversione. Chinwe insegna economia domestica in una scuola superiore. Eze, il futuro marito, di giorno lavora come ingegnere per la Shell, di sera evangelizza tra le strade della grande periferia di Port Harcourt.

L’orologio costoso al polso e i vestiti inamidati convincono la madre di Chinwe che l’uomo sia lo sposo giusto per sua figlia. Dopo le nozze la coppia si trasferisce all’Ehoro’s Estate, quartiere residenziale per benestanti. Eze acquista macchine costose e invita colleghi e vicini a cena per fare sfoggio della sua ricchezza. Il quartiere diventa presto meta ambita dei ladri. Tutti gli abitanti, ad eccezione di Eze, decidono di versare una generosa somma di denaro ai furfanti in cambio di protezione.

Una notte, due ladri si introducono nella casa degli sposi: Eze dimostra maggior attaccamento ai beni materiali che alla vita della moglie ostaggio dei furfanti con una pistola puntata alla tempia. L’atteggiamento di sfida osservato dal marito coi banditi, i continui rimproveri sulla piccantezza dei piatti e sull’incapacità di Chinwe di tenere sempre alta l’attenzione sulle letture bibliche spingeranno la donna, dopo qualche tempo, a dare all’amore “una seconda possibilità” sposando un’altra persona.

Il tema dell’amore e della violenza coniugale attraversa anche i racconti successivi. In Tumori e farfalle, una figlia è alle prese con la notizia di un cancro alla tiroide che ha colpito un padre molto detestato. Hanno vissuto a lungo a Boston. I soldi all’epoca scarseggiavano. La casa in cui abitavano era trafficata da topi e scarafaggi. Prendevano del cibo al banco alimentare e, quando potevano permetterselo, acquistavano ingredienti nel negozio africano perché

«Non dobbiamo rinnegare ciò che siamo.»

Tra la fame e l’attaccamento alle proprie radici si perpetravano le violenze contro una moglie, che era anche una madre, consumata da un’inesauribile vocazione al perdono. Tale vocazione, tuttavia, non era stata trasmessa per via ereditaria alla figlia cui giungono le preghiere disperate della madre che la implora di tornare nella casa familiare per assistere il padre già in preda al fantasma della morte. Benché malato, il padre non rinuncia alla ferrea disciplina di un cuore indurito e arrogante, mentre la figlia chiude nuovamente la porta a quella “casa della fame” – per riprendere l’iconico titolo di un’opera di Dambudzo Marechera – da cui era già scappata in passato.

In Wahala Runs Girl le due protagoniste vengono stuprate.

Ezinne incontra una dibia, una guaritrice, affinché la purifichi dagli spiriti che causano l’infertilità. Se per tutti è una mgbaliga, una botte vuota, Ezinne è una donna atterrita dal dolore che sente quando suo marito Chibuzo prova a fare l’amore con lei. Mentre la guaritrice le applica un unguento che sa di sterco di vacca ed erbe rancide, Ezinne parla del suo malessere ma sa che per la dibia sono gli spiriti invidiosi ad impedirle di generare un figlio.

La sera del rituale, Chibuzo costringe la moglie a consumare un rapporto sessuale dicendole:-

«Cosa credi che pensino di me? Un uomo del mio rango, senza nemmeno l’ombra di un figlio a dimostrarlo […] Anche una femmina va bene. Dobbiamo avere un figlio, o questo matrimonio non vale niente.»

Come ha brillantemente sottolineato Chielozona Eze, docente di Lingua inglese alla Northeastern Illinois University, il racconto Runs Girl occupa un posto centrale nella filosofia letteraria post-coloniale dell’autrice. Ada è una studentessa universitaria alle prese con i gravi problemi di salute della madre cui si associano le ristrettezze economiche che le impediscono di seguire con regolarità le lezioni. In suo aiuto accorre Njideka, una compagna di corso dalle “extension impeccabili” che le propone di diventare una “runs girl“, una ragazza bella con un’ottima conoscenza della lingua inglese disposta ad allietare le serate e le notti di uomini facoltosi. I clienti di Njideka sono gli yahoo boys che guidano macchine sportive e i mugu,

«uomini più vecchi, dirigenti petroliferi – spesso stranieri- straripanti di petronaira.»

Sui sedili posteriori di una BMW, Ada viene stuprata da un uomo alto e di carnagione scura, agghindato in una buba di lino. Mille dollari è il prezzo che lo sconosciuto paga per abusare di Ada. Il corpo di Ada è il corpo della “nazione nigeriana” sacrificato sull’altare della corruzione e del peccato. Fiumi di petronaira scorrono tra le vene aperte della Nigeria ma nel Paese manca l’elettricità, le cure sono carenti e l’istruzione diventa accessibile nella misura in cui si riesce ad entrare nei giri che contano. In un Paese che trabocca di nuove chiese e nuovi culti, il maquillage religioso ha soppiantato la morale. Eppure Ada, immaginandosi in una valle ricolma di ossa, non rinuncerebbe a plasmare da aride ossa una nuova Eva che

«camminerebbe tra gli alberi del giardino. E berrebbe dalle acque del fiume. E ancora una volta mangerebbe il frutto proibito. Ma non verrebbe bandita dal giardino, perché le sarebbe concessa la possibilità, solo una, di chiedere perdono. E verrebbe perdonata.»

Le donne forti di Chinelo Okparanta sono donne che sentono l’incomprimibile bisogno di reincantare il mondo ancorandolo a miti fondativi che ribaltino la dialettica “peccato-sofferenza-salvezza” per diventare inni di libertà e misericordia.✎

Incipit

Chinelo Okparanta, Afrologist

«Ai tempi del furto, Eze e Chinwe vivevano nel quartiere di Elelenwo, a Port Harcourt. Abitavano nelle Maewood Estates, che alcuni vicini chiamavano Ehoro’s Estate, dal cognome del proprietario.
Quello di Ehoro era un complesso residenziale piuttosto grande; una dozzina di bungalow a un piano ammassati assieme e separati solo da ghiaia ed erba, una strada interna a collegarli e qualche albero: aranci, guaiave e banani. Ogni bungalow poi aveva un vialetto d’accesso e un garage. Sul perimetro del complesso si alzava un alto muro di cemento, con due enormi cancelli di metallo, uno all’entrata, uno all’uscita. La cima del muro di cemento (e dei cancelli adiacenti) era ricoperta di frammenti di vetro – vetro verde, vetro chiaro, vetro marrone – come tutti i muri e i cancelli di Port Harcourt ancora oggi.»

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