Coccodrilli nel fiume: un inconfessabile segreto tra Roma e Mogadiscio va svelato

Il comandante del fiume ✏ Ubah Cristina Ali Farah

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo

Tempo di lettura: 6 minuti

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Il comandante del fiume, Ubah Cristina Ali Farah, 66thand2nd, 2014.

Uno ad uno, recensiremo tutti i romanzi della collana Bazar di 66thand2nd che ancora una volta non delude nelle sue scelte editoriali. Il comandante del fiume della scrittrice italo-somala Ubah Cristina Ali Farah è uscito nel 2014, ed è il secondo romanzo dell’autrice dopo l’esordio con Madre piccola (Frassinelli, 2007), sviluppatosi dall’omonimo racconto vincitore della prima edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre nel 2006.

In questo secondo romanzo, la scrittrice si immerge nel mondo di un giovane diciottenne, Yabar, romano d’adozione e studente svogliato. È un racconto in prima persona sotto forma di flashback e di confessione liberatoria, sapientemente frastagliato affinché il lettore possa cogliere l’insieme e la verità sottaciuta solo a pagina 198 (ora però non curiosate). Yabar ricompone i pezzi di una storia, della sua storia familiare e allo stesso tempo di un popolo, quello somalo dopo lo spartiacque della guerra civile del 1991. Una ferita aperta per la madre e la sua generazione, esiliata in mille angoli del mondo. Una ferita però anche di Yabar, che non comprende, ma subisce indirettamente il dolore per mezzo della madre, della zia Rosa, e delle loro storie.

«È quello che Afweyne, Bocca grande, il dittatore, ci ha lasciato in eredità: divisione e distruzione. I clan di per sé non sono la causa, sono il potere e l’ingordigia a guidare le azioni degli uomini, ma hanno fornito il pretesto.»

Presenza costante tra le pagine è il padre del ragazzo, o meglio la sua assenza e i motivi del suo ritorno in Somalia. Cercando di ricostruire il ricordo del suo volto con un collage di fotografie, Yabar mostra come la memoria del passato sia essenziale per la rielaborazione del presente, anche quando ne fa riaffiorare i lati più mostruosi, letteralmente e metaforicamente.

«Mi ero dimenticato com’era fatto e in quel momento lo vedevo ridere nella penombra, come se stessimo giocando a nascondino. I nostri visi non erano mai completi, allora ho preso le forbici per separare la sua faccia dalla mia e un cartoncino su cui attaccare i vari pezzi. Mi ero messo in testa che dovevo comporre le nostre facce, per vederlo di nuovo, ma i pezzi non combaciavano tra loro e così il risultato appariva mostruoso, un occhio più grande, la bocca sul collo, la fronte troppo bassa.
Non mi ricordavo più com’era fatto e ora quella era l’unica immagine che mi rimaneva di lui.»

Questa ricerca della memoria è poi racchiusa in una cornice “leggendaria”, a conferma di come l’uomo abbia un costante bisogno di raccontarsi, e proprio nelle storie tramandate nei secoli, nelle leggende, nei miti, nelle fiabe e nelle favole, trovi un senso alla propria di storia. Raccontatagli fin dall’infanzia, la leggenda somala del comandante del fiume è allo stesso tempo guida interpretativa e maestra per Yabar che non si accontenta di un’unica lettura, ma proprio mettendola in dubbio, raggiungerà la sua verità.

Secondo questa leggenda, in un paese privo d’acqua, i suoi abitanti chiesero ai saggi di creare un fiume. Con il fiume, oltre all’acqua arrivarono anche i coccodrilli a terrorizzare gli uomini. Per garantire l’accesso all’acqua, questi allora nominarono un comandate del fiume che, con l’aiuto dell’enorme albero di garas e del formicaio gigante, governasse tutte le creature del fiume proteggendo così le persone e il bestiame dai coccodrilli.

Per conoscere il bene e sopravvivere, si deve convivere con il male necessario. Ma come si distingue il bene dal male, al di fuori delle favole, nella vita reale? Serve una grande capacità di discernimento e rettitudine. E, trasposta la domanda nel caos generato da una guerra civile che ha dilaniato un’intera nazione e sparpagliato i propri cittadini ovunque nel mondo, l’impresa appare ancora più impossibile. È il padre stato capace di tale discernimento? E Yabar, lo è?

«Il male e il bene sono connessi, come ci mostra la favola del comandante. Non credi che non sia un caso se il popolo decide di convivere con i coccodrilli piuttosto che rinunciare all’acqua e nomina il comandante per regolare la vita del fiume?»

Yabar non è solo. Ogni personaggio del romanzo, a modo suo, è alla ricerca della propria storia che lo aiuti meglio a definire il sé. La zia Rosa, di madre somala e padre italiano fascista, è quasi ossessionata da qualsiasi oggetto arrivi dall'”Africa”, e attraverso gli oggetti e l’amicizia con Zahra (la madre di Yabar) cerca se stessa e il proprio lato somalo, negatole nel corso della sua vita. Così ci prova anche la diligente studentessa Sissi, figlia di Rosa e di un italiano, chiara di pelle, mitizzando le sue origini africane. E ancora Ghiorghis, figlio di etiopi e nato in Italia, a cui personaggi diversi appiccicano una “identità” monolitica – italiano perché nato in Italia in un caso o etiope per via delle origini dei genitori nell’altro -, banalizzazione superata in un certo senso dallo stesso quando dà più importanza alle relazioni piuttosto che alla geografia o al sangue, decretando Roma, con il suo cappuccino, sua patria elettiva.

«Nonostante tutte queste scocciature, uscito dall’aeroporto mi è bastato un attimo per capire che ero tornato a casa, bagnato dalla luce di questa città.»

Il linguaggio delle appartenenze è un tema già indagato dall’autrice in Madre piccola, e intreccia tantissimi fattori che vanno dalla geografia, al sangue, alle culture, alle relazioni con gli altri e alle preferenze individuali che inseriscono ognuno di noi in gruppi sociali quali “gli amanti del rap” o “della pallavolo”, e che definiscono chi siamo e chi vogliamo essere. Più volte nel romanzo, Ubah Cristina Ali Farah espone diversi punti di vista per bocca dei suoi personaggi e li provoca attraverso l’arguta mente di Yabar, non tanto per provare quale sia il migliore, quanto per dare spazio a ciascuna prospettiva individuale. Il dialogo tra Yabar e Ghiorghis nelle pagine dalla 113 alla 116 è forse il più interessante del romanzo in questo senso.

«Questo [il prete] lo aveva guardato con simpatia e, indovinate un po’, gli aveva domandato: “Di dove sei?”. “Di Roma” aveva risposto Ghiorghis e il prete aveva insistito: “Etiope, eritreo?”.
“I miei sono entrambi etiopi” aveva risposto, allora il prete lo aveva rimproverato: “Non mi piace questo tuo rifiuto”.
Ghiorghis ci era rimasto secco. Come si permetteva il prete di sostenere che lui rinnegava le proprie origini? Che si rifiutava di essere etiope? E poi l’insegnante di ginnastica italoamericano glielo aveva spiegato che il tuo posto è dove hai i legami, gli amici, riconosci le strade e gli odori.»

Il comandante del fiume è da leggere per addentrarsi con humor e irriverenza nel mondo complesso, variegato e soprattutto esistente degli afroitaliani. Da non perdere poi l’approfondimento dell’Istituto Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo e l’intervista sul Corriere delle Migrazioni. Ora restiamo in attesa della prossima opera dell’autrice.✎

Incipit

comandante, Afrologist

«Se qualcuno pensa che mi metterò a recitare il mea culpa si sbaglia di grosso. La gente si fa un sacco di idee quando mi vede: da dove vengo, chi sono i miei genitori, in che casa vivo, se vado bene a scuola. Insomma, un bel quadretto preconfezionato. Ma, dico io, una storia non si può cogliere al primo sguardo, bisogna armarsi di pazienza e mettersi in ascolto. Riconoscere, per esempio, che sono le nostre scelte a mostrare di che pasta siamo fatti.»

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