Diario di una sopravvivenza
La morte non mi ha voluta ✏ Yolande Mukagasana
La morte non mi ha voluta, Yolande Mukagasana, Marotta&Cafiero, 2019, traduzione dal francese di Anna Cinzia Sciancalepore.
La morte non mi ha voluta della ruandese-tutsi Yolande Mukagasana – moglie e vedova, madre di figli assassinati, infermiera eppure Muganga (medico) nell’ambulatorio di Cyivugiza alla periferia di Kigali – è la testimonianza accorata e dolorosa di una tragedia, personale e collettiva: il genocidio tutsi, consumato a colpi di machete nel Paese delle mille colline tra il 6 aprile e il 16 luglio 1994.
Il lungo racconto si apre con la notizia, una sera d’aprile, dell’abbattimento del Falcon 50 su cui stanno viaggiando Juvénal Habyarimana, il presidente dittatore del Ruanda, di etnia hutu, e il suo omologo burundiano Cyprien Ntaryamira.
La morte violenta di Habyarimana, addebitata alle azioni del Fronte Patriottico Ruandese, oltre a segnare la fine degli Accordi di Arusha, fa scattare il piano genocidario contro i tutsi e getta la famiglia di Yolande nella disperazione. Nepo, suo fratello, si lascia andare ad un’infausta profezia soffiando sul monticello di farina che Yolande tiene sul palmo della mano:
«È così che scompariranno i tuoi. Voleranno via. Li perderai tutti. Resterai sola. Perché la morte non ti vuole.»
La fitta boscaglia accoglie Yolande e i suoi familiari nella notte illuminata dalla Croce del Sud. Vicini di casa e soldati hutu entrano nella loro abitazione momentaneamente abbandonata. Voci di donne giurano di voler tagliare i seni alla Muganga.
Tra l’erba alta Yolande, snocciolando date, ripercorre la storia del suo Paese «visitato dal genocidio in maniera ciclica, come un angelo sterminatore». Il mattino li riporta a casa. Sintonizzati sulla stazione della radio di regime, ascoltano orridi proclami urlati dagli “accoliti del genocidio”.
«Braccare il serpente»
«Uccidere la blatta dagli incisivi distanziati. Dal tallone stretto. Dai capelli meno crespi»
La disumanizzazione del nemico comincia con la sua animalizzazione.
Quando un pennivendolo di regime annuncia in diretta la morte di Yolande, «tutto il suo temperamento di donna nera mal civilizzata dai missionari rinviene in superficie». Promette di tagliargli i testicoli e di esporli, affumicati, in un salone. Joseph, suo marito, la incalza a pianificare una fuga per mezzo della quale l’intera famiglia possa sentirsi al sicuro da agguati mortali.
Sarà proprio nel corso di questa fuga progettata insieme che Yolande assisterà alla morte del marito, giustiziato con un machete arrugginito sull’asfalto di un’anonima pista. Muganga è costretta a separarsi dai figli. In molti le danno la caccia. In giro si maligna di un suo flirt con Roméo Dallaire, comandante militare della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda, uno dei più cocenti fallimenti nella storia del peacekeeping targato ONU.
Una cassa di legno sotto una piramide di carbone è il suo primo ricovero di fortuna nell’abitazione di una donna hutu, Emmanuelle. Poi è la volta del basamento di un lavello, sempre nella cucina di Emmanuelle.
Siamo più o meno a metà del libro quando Yolande, persa nell’idraulica elementare dei tubi del lavello, s’interroga: -«Ferocia nera o barbarie bianca?». Le braccia di bambini tranciate dal machete, le donne violentate e sventrate parlano di “ferocia nera” ma
«l’Occidente è più sottile. Non taglia le membra. Lascia morire di fame a lungo prima di mettere a morte […] Questo Occidente che ha portato il raffinamento della crudeltà fino a progettare gli ammazzatoi, non è forse l’Occidente della barbarie?»
L’Occidente cui si riferisce Yolande, nella duplice veste di testimone e narratrice di violenze inenarrabili, è l’Occidente dell’inazione dei caschi blu, dei colonizzatori, dei bianchi portatori di discordia e desiderosi di lusinghe.
Il Ruanda ha una sua cosmogonia tramandata nei racconti orali. L’antico re Gihanga ebbe tre figli: Gahutu, Gatutsi e Gatwa. Il primo arava la terra, il secondo era pastore e il terzo lavorava l’argilla. Gahutu offriva i suoi raccolti, Gatutsi regalava il latte delle sue greggi e Gatwa trasportava nei suoi piatti e nelle sue brocche il frutto del lavoro degli altri due perché si nutrissero.
«A quei tempi – dice Yolande – i fratelli hutu, tutsi e twa erano ancora fratelli», tempi stravolti dall’arrivo dei missionari e dei colonizzatori che utilizzarono la carta dell’etnicizzazione della questione sociale per trasformare le disuguaglianze economiche nel detonatore di un conflitto interetnico.
Yolande è ancora incastrata tra i tubi quando le giunge notizia dell’incerta morte dei suoi figli e subito avverte di essere
«come quelle madri dell’Apocalisse di cui si è detto che rimpiangeranno di non essere state sterili.»
Emmanuelle ha incontrato un militare, un hutu del sud che, dietro compenso, accetta di scaricare, nel giardino di una chiesa, Yolande che vi resta il tempo di una messa senza eucaristia. Scortata da Emmanuelle e da Murielle, sua sorella che indossa l’uniforme dell’esercito ruandese, Muganga finisce nell’abitazione di un colonnello lascivo e sieropositivo che “ospita” giovani donne – hutu o tutsi poco importa – in cambio di favori sessuali.
La radio che Yolande custodisce in gran segreto lancia la notizia di un imminente attacco delle forze ribelli a Kigali contro le truppe governative. Yolande resiste alle avances del colonnello architettando uno stratagemma per mezzo del quale finge di contattare telefonicamente lo Stato maggiore dell’esercito regolare accusando il colonnello di essere un traditore che nasconde tutsi. Caduto nel tranello, il colonnello scarica Yolande ed Emmanuelle dinanzi alla parrocchia di Saint-Paul. Da qui, le due donne trovano rifugio in un hotel sorvegliato dai caschi blu. Sembra la fine di un incubo. Yolande ridiventa Muganga, salva Martine da una setticemia dopo che questa era stata violentata ripetutamente da un miliziano e aveva avuto un aborto, e cura i duecento rifugiati presenti nell’hotel.
Ridiventa un essere umano che ritorna alla vita. Vuole innamorarsi e avere un bambino. Esistono un “prima” e un “dopo” nella vita di Yolande: un “prima” condito da affetti sinceri e soddisfazioni professionali, un “dopo” fatto di incertezze e di traumi dolorosi che il coltello della vita ha inciso sulla carne dell’anima lasciando come cicatrice un’insperata pulsione di vita.
«Un giorno potrò di nuovo donare tutto l’amore che c’è in me. Ho voglia di fare un figlio. Ne ho bisogno come di bere. Voglio vivere. Voglio innamorarmi, poi restare incinta, fare un bel bambino, un tesoro al quale daremo tutto, io e suo padre, una perla che vivrà come un principe.»
Edito dalla gang di “spacciatori di libri” della Marotta&Cafiero di Scampia che in autunno lanceranno il primo numero del loro “tabloid aziendale” dedicato alla “letteratura africana“, il racconto fiume della Mukagasana intreccia la poetica del “lutto” con quel “dovere di ricordare” che ha ispirato anche L’ombra d’Imana di Véronique Tadjo (Ilisso edizioni, 2005) e Rwanda. Murambi, il libro delle ossa di Boubacar Boris Diop (Edizioni E/O, 2012).
Nel giugno di quest’anno sulle pagine de The New Yorker, l’autrice ruandese-tutsi Scholastique Mukasonga, nota in Italia per il romanzo Nostra Signora del Nilo (66thand2nd, 2014) ha scritto un lungo racconto dal laconico titolo “Grief“. L’incipit è di quelli che non ammettono repliche:
«In TV, in radio, non lo chiamavano mai genocidio. Come se la parola fosse riservata. Troppo seria. Troppo seria per l’Africa. Sì, c’erano dei massacri ma c’erano sempre massacri in Africa. E questi massacri stavano avvenendo in un paese di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Un paese che nessuno poteva trovare sulla mappa. Odio tribale, primitivo, odio atavico: nulla da capire laggiù.»
Ci sono vari punti di contatto tra il racconto della Mukasonga e lo spezzone letterario autobiografico della Mukagasana, entrambi abitati da un universo femminile animato da una spiritualità a tratti anticlericale.
Le donne sono ponti tra famiglie divise e vittime due volte: della follia della guerra e della violenza degli uomini. Le due autrici hanno sperimentato la condizione dell’esilio ma il Ruanda, dalla loro geografia sentimentale, non ha ancora traslocato.✎
Incipit
«Anche se passa le sue giornate altrove, Dio ritorna ogni notte in Ruanda. Questo, nel mio Paese, è un proverbio più antico dell’invasione dei missionari. Sì, Imana veniva tutte le sere a dormire in Ruanda, si diceva. I preti ci hanno insegnato che bisogna chiamarlo Mungu, cioè Dio in swahili. Allora l’abbiamo chiamato Mungu. Ma molto presto, prima di nascosto e poi apertamente, abbiamo ripreso a chiamarlo Imana. E ci siamo messi a celebrarlo di nuovo, nella notte. È questa l’anima ruandese, ribelle all’indottrinamento. Intenda chi può.»
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