Sei fratelli e l’oracolo dello scribacchino del telegrafo del destino
I pescatori ✏ Chigozie Obioma
I pescatori, Chigozie Obioma, Bompiani, 2016, traduzione dall’inglese di Beatrice Masini.
Da oggi, posso aggiungere alla mia lista un ulteriore romanzo scritto dal punto di vista di un bambino. Ho già parlato della mia passione per questo genere di opere in un’altra recensione, quella di C’è bisogno di nuovi nomi di NoViolet Bulawayo. In questo senso, I pescatori del nigeriano Chigozie Obioma edito in Italia da Bompiani (2016), non fa che rafforzare il mio interesse. Leggere inoltre il saggio dell’autore dal titolo ‘I Read Morning, Night and in Between’: How One Novelist Came to Love Books, uscito sul New York Times il 3 dicembre 2018, su come i libri si siano letteralmente impossessati della sua vita a otto anni, dà forse un’idea su come la sua infanzia sia stata determinante nella decisione di diventare prima lettore, poi scrittore. E così, l’infanzia dei personaggi de I pescatori è altrettanto decisiva, avvolta però da toni decisamente più cupi e profetici.
Akure, luogo natio dell’autore, situata nel Sud Ovest della Nigeria è una cittadina come tante altre nel 1996. Qui Padre e Madre hanno avuto sei figli: Ikenna, Boja, Obembe, Benjamin, Nkem e David. Padre, impiegato di banca, ha sogni ambiziosi per loro, un futuro radioso per ciascuno. Madre invece, con il suo lavoro al mercato e la cura dei due più piccoli, incarna il lato pratico della famiglia. Gli occhi e la voce attraverso i quali entriamo nella storia, sono quelli del novenne Ben. Ed ora acquistano un senso gli appellativi “Padre” e “Madre”: quale bambino chiamerebbe infatti i propri genitori per nome?
«Tutto ciò che importava era il presente e il prossimo futuro. Ne vedevamo scorci come una locomotiva che percorre binari di speranza col suo cuore di carbone nero e un fragoroso verso d’elefante. A volte questi scorci arrivavano in forma di sogni o voli di pensieri fantasiosi che ti sussurravano dentro la testa – farò il pilota, il presidente della Nigeria, il ricco, avrò degli elicotteri – perché il futuro era come lo inventavamo. Era una tela vuota sulla quale si poteva immaginare qualunque cosa.»
Con il trasferimento per motivi di lavoro del padre in un’altra cittadina, Yola, l’equilibrio della famiglia si incrina. I quattro più grandi vivono in una spensieratezza irriverente che l’autore riesce a descrivere limpida come le acque del fiume proibito dove diventano pescatori insieme ad altri bambini del vicinato. Per chi ha passato parte della propria infanzia su un letto di un fiume, come la sottoscritta, ad ogni pagina sembra di giocare con loro a pescare girini che poi, chiusi in latte di metallo, sono destinati a morire e a puzzare sotto al letto della cameretta di Ikenna e Boja.
Pescatori però non è esattamente ciò che Padre ha in mente.
«Quello che voglio è che siate pescatori di sogni buoni, che non si arrenderanno finché non avranno catturato la preda più grossa. Voglio che voi siate titani, dei pescatori minacciosi e irrefrenabili. […] Sentite, vi ho sempre insegnato che in ogni cosa brutta potete sempre trovare qualcosa di buono, e adesso vi voglio dire che potete essere un altro tipo di pescatori. Non quelli che pescano in una sudicia palude come l’Omi-Ala, ma pescatori della mente. Ambiziosi. Ragazzi che affonderanno le mani nei fiumi, nei mari, negli oceani di questa vita e avranno successo: dottori, piloti, professori, avvocati. Eh?»
Ed è proprio al fiume che i bambini incontrano Abulu “il folle”, miccia narrativa che scaglierà su Ikenna, il primogenito, una terribile profezia. Da luogo di leggerezza e complicità tra bambini, il fiume si trasforma in luogo maledetto.
Due delle pagine forse più interessanti del romanzo sono dedicate proprio alla descrizione della “follia” di Abulu, considerato “l’oracolo dello scribacchino del telegrafo del destino”:
«La follia di Abulu era di due tipi, come se due diavoli gemelli suonassero di continuo melodie a gara nella sua mente. Uno suonava la musica che passava per pazzia regolare, ordinaria: andare in giro nudo, sporco, puzzolente, coperto di sudiciume, seguito da un mare di mosche, ballare per le strade, raccogliere l’immondizia dai bidoni e mangiarsela, parlare da solo ad alta voce […] Il secondo regno della follia di Abulu era straordinario; uno stato in cui entrava all’improvviso come se, ancora in questo mondo, intento a raccogliere qualcosa da un bidone o a ballare a una musica inudibile o a fare una delle cose che faceva, si ritrovasse rapito in un universo di sogno. Ma quando si trovava in quello stato non lasciava mai fuori del tutto il nostro mondo; li occupava tutti e due, una gamba di qua, una gamba là come se fosse un mediatore tra due regni, un intermediario indesiderato. I suoi messaggi erano per le persone di questo mondo.»
E la persona prescelta di questo mondo è proprio Ikenna. A vaticinio scagliato, inizia il vero e proprio romanzo. La storia acquisisce il suo centro di gravità che attrae tutti gli elementi della narrazione: la profezia stessa. E come nel pozzo d’acqua in cui era silenziosamente morto un uccellino, o nel barile d’acqua nel quale marciva solitaria una lucertola, entrambi apparentemente invisibili e lenti veleni dell’elemento vitale – l’acqua -, la vita stessa dei protagonisti viene irreparabilmente avvelenata dalla paura. In modo così intimo da non essere di immediata percezione. La spirale negativa degli avvenimenti raggiunge profondità inimmaginabili e di una drammaticità a dir poco unica nel suo genere.
Anche le colonne portanti della famiglia, Padre e Madre, separate dalla distanza, rivelano tutta la loro fragilità di fronte alla potenza della paura e dell’odio. Rimangono inermi e increduli come il lettore, libero di scegliere se credere alla maledizione o all’effetto di questa sui protagonisti, considerandola quindi un esempio da manuale di profezia che si autoavvera.
Personalmente, devo ammettere che quando ho comprato il romanzo, non mi aspettavo di leggere una versione “bambina” di Delitto e Castigo di Dostoevskij, libro che amo e consiglio più o meno a chiunque. Eppure, l’angoscia, la colpa, il presagio, diventano ancora più viscerali se raccontati dalla voce di un bambino, lasciando il lettore avvolto in un senso di disagio, compassione, gonfio di orrore, e allo stesso tempo incollato fino all’ultima pagina.
«Una volta ho sentito dire che quando la paura s’impossessa del cuore di una persona la impoverisce. Questo si può dire di mio fratello, perché quando la paura prese possesso del suo cuore lo derubò di molte cose: la pace, il benessere, i legami, la salute, e perfino la fede.»
Obioma si ispira poi esplicitamente al romanzo “africano” per eccellenza, Le cose crollano/Il crollo di Chinua Achebe, quasi come se quel titolo rendesse più giustizia del neutrale I pescatori.
Nel suo pezzo per The Atlantic, Naomi Sharp rivela inoltre che l’autore stesso abbia offerto in un’intervista l’allegoria politica come possibile chiave di lettura del romanzo, innestandolo nella storia coloniale della Nigeria:
«Obioma descrisse il romanzo in parte come una “critica all’occupazione inglese della Nigeria”, e definì i tentativi coloniali degli inglesi di forgiare una nazione da tribù disparate “l’equivalente della profezia di un folle”. […] Questa lettura sembra suggerire che Abulu (ovvero la Gran Bretagna colonialista) meriti la maggior parte della colpa, e forse che le lotte tra fratelli rappresentino le divisioni tribali.»
Fin da Caino ad Abele, le battaglie fratricide esercitano un fascino tanto macabro quanto ventrale sull’Essere umano. In questo senso, I pescatori di Chigozie Obioma può sicuramente aspirare a diventare un classico del genere.
L’abilità dell’autore di descrivere gli avvenimenti come in una sceneggiatura, rende poi la narrazione più reale ed esperienziale. Tant’è che nel Regno Unito, I pescatori è stato adattato in uno spettacolo teatrale da Gbolahan Obisesan e diretto da Jack McNamara per New Perspectives e Home, facendo sold out nel suo tour.
I pescatori, romanzo d’esordio dello scrittore, era risultato finalista del Man Booker Prize for Fiction nel 2015. E così, anche il secondo romanzo, An Orchestra of Minorities – in arrivo quest’anno in italiano sempre per Bompiani – è risultato finalista nel 2019 per il medesimo prestigioso premio.✎
Incipit
«Noi eravamo pescatori:
Io e i miei fratelli diventammo pescatori nel gennaio del 1996 dopo che nostro padre andò via da Akure, la città nell’ovest della Nigeria dove eravamo vissuti insieme da tutta la vita. Il suo datore di lavoro, la Banca Centrale di Nigeria, l’aveva trasferito in una sede a Yola – una città del nord all’immensa distanza di più di mille chilometri – all’inizio di novembre dell’anno prima.»
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[…] Personalmente, ritengo che riuscire ad orientarsi negli spazi di una storia aiuti a seguire in modo immersivo i protagonisti nelle loro peripezie, o a capire i fatti spiegati, e così mi ritrovo a cercare mappe un po’ ovunque, dalla saggistica alla narrativa di ogni genere. Mappe che possono essere anche semplici schizzi come quella di Akure ne I pescatori, di Chigozie Obioma. […]
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