In Congo tra socialismo scientifico e alieni
Jazz e vino di palma ✏ Emmanuel Dongala
Jazz e vino di palma, Emmanuel Dongala, Edizioni Lavoro, 2005, traduzione dal francese di Marie-José Hoyet.
Pubblicata per la prima volta nel 1982, la raccolta di racconti Jazz e vino di palma di Emmauel Dongala (Edizioni Lavoro, 2005) è forse l’opera più famosa dell’autore centrafricano-congolese. I racconti sono otto: sei ambientati in Congo Brazzaville, dove l’autore ha vissuto a più riprese, studiando e insegnando, e gli ultimi due negli Stati Uniti, dove Dongala vive dal 1997 insegnando all’università chimica e letteratura africana francofona. Come Primo Levi, infatti, Emmanuel Dongala è innanzitutto un chimico. Non nascondo che sia stata proprio questa caratteristica ad incuriosirmi e a farmi scoprire la raccolta; raccolta che però non ha niente a che vedere con Il sistema periodico.
Il sorprendente e dialettico declino del compagno Kali Tchikati, Una giornata nella vita di Augustine Amaya, Il processo di Papà Likibi, L’uomo, e La cerimonia affondano nel periodo comunista del Congo, concentrando il focus su una classe dirigente corrotta, marcia e tanto accecata dal potere da risultare completamente avulsa da qualsiasi contesto ideologico.
Come scrive la curatrice e traduttrice, Marie-José Hoyet, nell’Introduzione al volume,
«Con i primi cinque racconti di Jazz e vino di palma, tutti ambientati in Africa, Dongala compie un passo avanti nella denuncia delle derive politiche di un regime che ha portato al crollo della società congolese, partendo proprio dalla situazione politica degli anni Settanta e in particolare dall’instaurazione rigida del socialismo scientifico marxista-leninista.»
Con uno stile inconfondibile, l’autore dipinge dei piccoli affreschi umoristici. Troviamo persone comuni come Augustine Amaya – donna, madre sola, analfabeta, commerciante al dettaglio, ed ex moglie di un intoccabile nuovo membro del Partito unico d’avanguardia – alla stoica ricerca di modi per riattraversare la frontiera dall’altro Congo e tornare a Brazzaville con la merce comprata a Kinshasa. Unico e insormontabile intoppo: la mancante carta d’identità andata persa nell’ufficio di confine. Chiunque abbia mai perso tutti i documenti e, nel momento della denuncia di smarrimento, si sia sentito chiedere proprio un documento d’identità, può sentire vagamente quel retrogusto, il senso d’impotenza al cospetto della burocrazia, lì proprio in fondo alla lingua, piacevole quanto un reflusso gastrico.
Troviamo anche “militanti modesti” ed “esemplari”, e abitanti di villaggi rurali poco convinti che il socialismo scientifico abbia tutte le risposte e le soluzioni. In caso di siccità, quando anche gli “esperti” bianchissimi e occidentalissimi si danno per vinti senza trovare spiegazioni plausibili e scientifiche, il capo Mouko del villaggio de Il processo di Papà Likibi si ritrova in un impasse ideologico che tocca vette elevate di humor.
«Qualcuno nel villaggio gli aveva suggerito, come unico modo per scongiurare la malasorte, di sacrificare una vita umana; ma questo era impensabile. Non si poteva più uccidere qualcuno così, senza una motivazione scientifica. Se si fosse dovuto sacrificare qualcuno, sarebbe stato necessario dimostrare chiaramente, legalmente e scientificamente la sua colpevolezza. Questa era la regola, dopo l’ultimo colpo di Stato che, adattata la rivoluzione, aveva imposto a tutti i villaggi il socialismo scientifico liberamente scelto dal popolo. Come fermare allora quella calamità?»
(corsivi miei)
E poi il gioiello, il cuore surreale della raccolta: Jazz e vino di palma, non a caso il racconto che dà il titolo all’intera raccolta. Se il senso di assurdo e di irreale già si percepivano nei precedenti, questo racconto è deliberatamente fantascientifico, e buffo aggiungerei. Mentre gli alieni blu metallico e dai capelli verdi invadono la Conca congolese prima ed un intero tratto di Africa poi, capi di Stato e leader di tutto il mondo si scannano in piena ambientazione da Guerra Fredda, proponendo soluzioni strategiche di volta in volta stereotipicamente satiriche. Nessuno si salva dalla penna di Dongala. Possono il jazz di John Coltrane e del vino di palma salvare l’umanità da un’invasione aliena? Plausibile. Il come ve lo lascio scoprire.
Già dall’incipit, i cultori della fantascienza umoristica avranno un felice déjà vu, riconoscendo la stessa gag di Ford Prefect, alieno proveniente dal sistema della stella Betelgeuse che in Guida galattica per gli autostoppisti, appena giunto sulla Terra, tenta di stringere la mano ad un’automobile scambiandola per la forma di vita primaria del pianeta. Che sia stato Dongala ad ascoltare gli episodi radiofonici di Douglas Adams sulla BBC, andati in onda negli stessi anni, o se al contrario l’autore inglese avesse letto questo racconto, o ancora se avessero avuto la medesima geniale idea, non ci è dato saperlo.
«Nel cielo c’erano solo due sfere luminose che giravano su se stesse come lucciole impazzite. Prima sorvolarono lentamente la donna che lavorava nel suo campo, poi si posarono adagio accanto a lei. Presa dal panico all’avvicinarsi delle due creature scese dalle navicelle spaziali, fuggì lasciando dietro di sé tutto quello che aveva di più prezioso, compresa la sua asina. Le creature, due per la precisione, camminarono verso l’asina e, con la mano sull’ombelico (un segno di rispetto?), chinarono la testa e una di loro premette il pulsante del suo registratore; ne uscì fuori una frase in swahili:
“Vuole portarci dal suo presidente?”.»
Gli ultimi due racconti, La mia metro fantasma e A Love Supreme, sono invece ambientati a New York, negli Stati Uniti. Il primo, brevissimo e scritto sotto forma di flusso di coscienza, regala scorci di vita urbana da leggere seduti in metro, appunto, per poi alzare il naso dalle pagine e scorgere gli stessi personaggi, le stesse dinamiche newyorkesi anche sull’unica linea underground di Torino.
Nel secondo, l’autore coniuga la ricerca di una propria “identità” nazionale dei giovani Stati africani, strattonati dalle due potenze mondiali dell’epoca, con le rivendicazioni della comunità nera nell’America segregazionista. A fare da ponte: il jazz. Non mancano citazioni e riferimenti ad altri artisti, dalla letteratura alla musica jazz, come lo stesso sassofonista John Coltrane al quale Dongala dedica l’ultimo racconto, omaggiando il suo album A Love Supreme del 1965.
Quando J.C. in persona nella storia dichiara concitato – «Devo riuscire a dare all’ascoltatore, a fargli percepire e vedere tutte le cose meravigliose che un musicista come me sente nell’universo. Devo fargli sentire l’amore del mondo, un amore supremo!» -, mi è parso di leggere il sommo sunto dell’espressione artistica che «con un’unica nota [riesce a] far viaggiare verso stelle lontane». E ho pensato: accompagnati da un pizzico di umorismo, il viaggio è senz’altro più piacevole.✎
Incipit
«Quando arrivo in una città che non conosco preferisco scoprirla la sera, a cavallo tra quelle ore indefinibili e fuggitive in cui il giorno muore e la notte gradualmente emerge per dispiegare il velo del suo impero. È proprio in quegli istanti che si possono captare tutte le pulsioni segrete di una città, i suoi timori e le sue speranze, si può cogliere tutto ciò che esita ancora tra l’apparire e lo scomparire, il momento in cui gli uomini e le cose abbassano la guardia.»
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