Italia “potenza coloniale”: spettro di una rimozione
Cronache dalla polvere ✏ Zoya Barontini
Cronache dalla polvere, Collettivo Zoya Barontini, Bompiani, 2019.
A cura di Jadel Andreetto e illustrato da Alberto Merlin.
Gli autori: Massimo Gardella, Lorenza Ghinelli, Sirio Lubreto, Gaia Manzini, Michela Monferrini, Davide Morosinotto, Davide Orecchio, Guglielmo Pispisa, Igiaba Scego, Aldo Soliani e Nicoletta Vallorani.
Cronache dalla polvere è l’autopsia, in forma di mosaic novel, del cuore di tenebra del colonialismo italiano in Etiopia.
Prima di scrivere questa recensione, ho provato a ricordare cosa la scuola italiana negli anni della mia formazione mi abbia insegnato a proposito del colonialismo italiano. Ricordo svariati capitoli su quello europeo col suo corollario di nefandezze in Africa e la ridda di precisazioni su quanto risultasse poco “europea” l’esperienza italiana sull’altra sponda del Mediterraneo.
Per quell’esperienza valeva la “disfavola” pascoliana, già raccontata all’epoca della Campagna di Libia, sulla Grande Proletaria che, mossa a compassione, andava a costruire vere case nel deserto del Fezzan.
Bonaccione, fanfarone, straccione: ecco tre aggettivi che si sono usurati più di altri a furia di essere accostati al colonialismo made in Italy made in Africa. Tre aggettivi che nascondono una bugia poco innocente non di rado accompagnata dal pericoloso adagio Italiani, brava gente.
Decolonizzare la narrazione storica
Nelle settimane durante le quali ho letto Cronache dalla polvere, ho anche assistito allo striptease dell’antirazzismo all’italiana. Un antirazzismo epurato della sua radicalità politica, più simile ad un atto di cortesia, ad un inchino, ad una genuflessione simbolicamente carica ma politicamente vuota.
Black Lives Matter!
Ma guai ad urlarlo a squarciagola. Guai a punzecchiare l’intellighenzia bianca nostrana scioccata dal razzismo a stelle e strisce ma sempre pronta a derubricare gli atti del razzismo “domestico” come spiacevoli episodi.
L’inconcludente monologo recitato dalla stampa contro l’antirazzismo “iconoclasta”, alle prese con la statua di Montanelli, rivela l’incapacità del Paese di sciogliere i nodi irrisolti del suo passato e del suo presente.
Questo è tuttavia il tempo, giusto e necessario, per rileggere Cronache dalla polvere.
Per Jadel Andreetto, curatore del volume, questo mosaic novel
«nasce sull’orlo del baratro […] Non è una raccolta di racconti, non è un romanzo ma un ibrido fatto di pezzi diversi.»
Pezzi diversi come tessere letterarie e disegni, realizzate con la pasta vitrea di una storia infausta, un arazzo coralmente intessuto dal collettivo di scrittori-illustratori “Zoya Barontini”.
Il 19 febbraio 1937 nel cortile del Ghebì imperiale, mentre ai poveri di Addis Abeba lì assiepati si lanciano talleri d’argento, Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, è colpito dalle schegge di alcune bombe scagliate da due partigiani eritrei. Graziani, come il Kurtz di “sterminate quei bruti” in Cuore di tenebra, ordina la “caccia al moro”. Secondo fonti etiopi, le rappresaglie mietono 30.000 morti, carbonizzati nei tucul incendiati dalle camicie nere con taniche di benzina o passati per le armi.
La mattanza fascista esce fuori dai confini di Addis Abeba. Colpisce le regioni di Scioa e Amara “dando esito a un autentico genocidio dell’etnia amhara” come scrive Simona Belladonna nel suo Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale (Neri Pozza, 2015). Culmina con la strage di Debre Libanòs nel maggio 1937, “il più grave crimine di guerra dell’Italia”, come recita il titolo dell’ultimo libro dello storico Paolo Borruso (Laterza, 2020).
Il plot narrativo di Cronache dalla polvere ruota intorno a questo episodio abissino della travagliata storia del colonialismo italiano in Africa.
Una delle caratteristiche proprie del mosaic novel è la rottura, o meglio, la frantumazione degli elementi tradizionali del racconto o del romanzo. Trama, personaggi e dinamiche relazionali, ambientazione geografica e linea temporale delle storie scarrellano gli uni dentro gli altri come ologrammi all’interno delle varie tessere.
I riferimenti all’Iliade si rincorrono tra le pagine di questo mosaic novel:
«Fare la guerra è una questione di muscoli e carne dai tempi di Achille e Memnone.»
L’accento sulla figura mitologica di Memnone, il semidivino Re degli Etiopi, gli “uomini dalla faccia bruciata” nella traduzione dal greco antico, rimette al centro il topos dell’incontro, ad alto gradiente conflittuale, tra l’Occidente bianco e l’Altro da sé con la sua propria geografia umana multicolor. Due mondi, come recita il titolo del racconto di Sirio Lubreto.
“Faccia bruciata” è l’epiteto razzista con cui una professoressa di storia apostrofa Kali, una ragazzina italo-etiope.
«Dice che le facce bruciate come me alla mia età già sono donne. Lo pensava anche Montanelli, aggiunge.»
Kali è una specie di guida. Protagonista dell’ultima “tessera”, è in grado di rimettere ordine nell’apparente assenza di concatenazioni tra quelle precedenti.
Viaggia tra le brecce, varchi temporali che collegano e scollegano passato e presente. Parla coi morti, soldati italiani e civili etiopi, i primi caduti, i secondi carbonizzati, facce e corpi bruciati dalla benzina fascista. Attraversando le brecce riesce a raccogliere le storie impresse sulle altre tessere:
«C’è la storia di Tamrat, che sarà una veggente; quella di Lebna, che ha visto la sua famiglia bruciare […], quella di Anaya, che è annegata nel fiume dopo essere stata liberata da Vinicio […], quella di un bambino senza nome dal corpo dipinto, crepato per un me ne frego […], quella di un italiano morto che non sapeva di essere morto.»
I protagonisti italiani di questo “romanzo a mosaico” respirano la stessa follia assassina del Kurtz conradiano. Sono attraversati dalle medesime contraddizioni che investono il Marlow di Cuore di tenebra la cui esperienza del colonialismo, come scrive Homi K. Bhabba, «sta nel problema di vivere nel cuore dell’incomprensibile» (I luoghi della cultura, Meltemi, 2001).
Somigliano al Flaiano di Aethiopia (Adelphi, 2020).
«Sognavano un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco.»
Trovarono invece
«una terra uguale alla loro, più ingrata, priva di interesse.»
o per utilizzare le parole di Giacomo, protagonista della prima tessera,
«un posto arido e misero, preistorico nella sua brutalità.»
Somigliano anche al tenente senza nome che di Tempo di uccidere è il narratore nella veste di alter ego dello stesso Flaiano.
Misoginia, razzismo, ossessione del dominio maschile, fantasie di stupro e violenza fisica strutturano il rapporto con le “donne indigene” in terra d’Africa.
«Le staneremo tutte, dalla prima all’ultima […]. E dobbiamo farle durare […] Sono come cagne in calore.»
Così ringhia Francesco, soldato fascista, mentre col commilitone Dino è impegnato nella “caccia ai beduini” dopo l’attentato a Graziani e prima che lo stesso Dino commetta tradimento fraternizzando con l’arbegnuoc Ebo, il guerriero resistente.
Ebo, al pari degli altri protagonisti etiopi che popolano questo mosaic novel, è un uomo integro. La sua statura morale giganteggia dinanzi alla grettezza e alla pusillanimità del “nemico” italiano. Racconta
«di cantastorie, griot, stregoni e indovini torturati senza pietà. Oltre al cuore e al cervello, i fascisti miravano all’anima perché un paese senz’anima è un paese senza memoria.»
Ebo è il Memnone del Novecento etiope.
Le poche donne “italiane” che spuntano tra le tessere sono proprio gli “angeli del colonialismo”. Remissive in ambiente domestico, basano la loro rispettabilità su una certa idea di urbanità borghese che le induce a fantasticare sul decoro dei propri spazi abitativi. Occupare uno spazio sano e sanificato consente di salvare i figli maschi da relazioni considerate biologicamente e socialmente pericolose.
La madre di Vinicio, ad esempio, denuncia ai fascisti la presenza di una famiglia etiope nel quartiere residenziale in cui vive, quartiere – si dice – destinato esclusivamente agli italiani solo perché suo figlio è innamorato di Ayana, la giovane etiope che di quella famiglia conosce i figli più piccoli.
Le donne etiopi di queste storie intrecciate conquistano sul campo il titolo di gambogne, guerriere. Non hanno tempo da perdere con i panegirici mentali delle italiane. Ci sono gli invasori da cacciare. Ci sono i figli da salvare dalla lebbra e dal fuoco dei fascisti. C’è da vincere una guerra per amore di libertà e dignità.✎
Incipit
«Mio adorato Giacomo, perché non arrivano più le tue lettere?
“Plotone, attenti!”
Mi hai forse dimenticata?
“Caricare!”
È dalla tua ultima licenza, ormai otto mesi fa, che non ho più tue notizie.
“Puntare!”
Per quel che ne so, potresti non essere in grado di ricevere né spedire la corrispondenza, oppure di scrivere o leggere perché ferito o, Dio non voglia, morto…
“Fuoco!”»
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