La linea del colore: la Nerezza come volontà di autorappresentazione
La linea del colore ✏ Igiaba Scego
La linea del colore, Igiaba Scego, Bompiani, 2020.
La linea del colore è l’ultima opera, in ordine di tempo, di Igiaba Scego che (ri)torna in libreria in questo inizio 2020 dopo aver partecipato al progetto, realizzato dal collettivo Zoya Barontini, di un “mosaic novel sul cuore di tenebra del colonialismo italiano”, col racconto Ethiopian volunteers, register here! ( in Cronache dalla polvere, Bompiani, 2019), aver curato l’edizione di Future. Il domani raccontato dalle voci di oggi (effequ, 2019), ed aver scritto Hagar, il nostro capitano (Effatà, 2019).
Una premessa
Consiglierei di leggere il romanzo partendo dalla fine, o meglio dalle pagine finali dedicate al making of del libro in cui Igiaba Scego situa il suo processo di scrittura, costellato da letture, approfondimenti e riflessioni politiche, all’interno di un percorso che l’ha vista lavorare su due piani storici: l’uno rivolto al passato e l’altro affacciato sul presente.
L’autrice non ha inteso scrivere un romanzo storico tradizionale, benché i fatti storici costituiscano il materiale magmatico che fa da sfondo ad una narrazione che procede per dislocamenti temporali e geografici e che tocca sia l’epoca della “Reconstruction” dopo la guerra civile americana e le vicende italiane di fine Ottocento, che l’Italia e la Somalia nel ventennio 1992-2012, una sorta di ventennio perduto per entrambi i Paesi.
L’Italia del Maxiprocesso e di Tangentopoli è anche l’Italia di Leila, nata a Roma, studentessa universitaria che amaramente confessa:
«Nel 1992 eravamo invisibili, degli spettri. Nella società c’eravamo, e non da poco tempo, pure noi migranti e figli di migranti ma […] per gli italiani eravamo degli estranei.»
Lo spauracchio del “corpo estraneo alla Nazione” ancora agita i dibattiti sul “diritto di cittadinanza”.
La Somalia entra nell’ultimo decennio del Novecento col ventre gravido della guerra civile. I genitori di Leila hanno lasciato il Paese per sfuggire alla dittatura di Siad Barre. Binti, cugina di Leila, vent’anni dopo l’operazione militare Restore Hope, affida le sue speranze di libertà al viaggio che dal Sudan, passando per la Libia, dovrebbe portarla in Italia. Con queste parole, rivolte alla cugina maggiore, motiva la sua decisione di lasciarsi alle spalle la Somalia:
«[M]i avrebbero fatta sposare ad un vecchio, di quelli della diaspora, che vengono qui a prendersi noi ragazze e ci incatenano alla loro vecchiaia. […] Ci scopano, ci ingravidano e poi se ne vanno dalle loro prime mogli che se ne stanno belle e beate nei Paesi del Nord. […] Se ne tornano nella loro Svezia, Norvegia, Finlandia, Inghilterra con i loro comfort e i loro passaporti forti. E noi rimaniamo qui con dei marmocchi moccolosi e un passaporto che non ci serve a niente. […] Basta spari, basta attacchi terroristici, basta con la paura di essere unita ad un vecchio bavoso.»
Lafanu Brown: una donna o più donne?
Il personaggio di Lafanu Brown, protagonista del romanzo, è un’invenzione letteraria, peraltro riuscitissima, che recupera, ricompone e trasfigura spezzoni biografici di due donne afroamericane giunte in Italia nel 1866: Sarah Parker Remond, ostetrica molto attiva nell’Anti-Slavery Society di Salem, ed Edmonia Lewis, scultrice che proprio durante il periodo romano completò l’opera Forever Free.
Lafanu Brown, figlia di una nativa americana Chippewa e di un haitiano, artista e pittrice, risiede a Roma quando nel febbraio 1897 la capitale è sconvolta dalle notizie, provenienti da Dogali, del massacro di “cinquecento italiani” catapultati in Eritrea
«a conquistare un posto al sole per la patria. E loro a quel sole bugiardo avevano creduto. Persino a quell’Italia incollata male da Cavour e dai Savoia avevano creduto. […] Ma molti sapevano in cuor loro che non erano poi così diversi da quegli abissini che dovevano conquistare e combattere.»
Sin dalle prime pagine, Igiaba Scego mette in luce una verità scomoda che cozza prepotentemente con la narrazione di un “colonialismo straccione”, vale a dire la consustanzialità del colonialismo, col suo precipitato di razzismo e razzializzazione, alla costruzione della “Nazione” italiana – e della sua supposta “bianchezza“ – nei decenni immediatamente successivi alla proclamazione del Regno d’Italia.
Ma quali sono i nodi che legano le traiettorie biografiche di Lafanu, Leila e Binti pur nella diversità dei tempi storici che scandiscono le loro esistenze? Qual è l’artificio letterario che rende possibile l’incontro tra esperienze di vita così paradigmatiche? Senza voler trafugare troppo nella cassetta degli attrezzi dello stile narrativo sceghiano, l’aver immaginato e descritto fatti ed esperienze comuni alle tre donne, fa di questo romanzo un’opera trans-storica, trans-geografica ed intergenerazionale.
Lafanu e Leila sono ugualmente atterrite dalla visione di donne e uomini neri, scolpiti e schiavizzati nel tufo della cinquecentesca fontana di Marino. Leila, da adulta, così ricorda quell’episodio della sua giovinezza:
«I quattro prigionieri, due uomini e due donne a seno nudo, mi assomigliavano. Avevano la pelle nera come la mia, i capelli ricci come i miei. […] Sentivo che quei prigionieri, in particolare le due donne, mi stavano chiedendo aiuto. […] Tre sorelle nere, estranee l’una all’altra, divise dai secoli, ma così vicine nella sofferenza. Perché essere neri significava ancora una volta avere a che fare con le catene che laceravano la nostra carne.»
In un articolo del 2016 apparso su Internazionale, Igiaba Scego scrive:
«spesso i luoghi delle schiavitù del terzo millennio in Italia si sovrappongono a quelli delle schiavitù del cinquecento, seicento, settecento.»
Esiste un archivio italiano pittorico ed artistico, più in generale, che è testimonianza diretta di questa sovrapposizione. Il romanzo, nelle figure di Lafanu, e di Leila, nera, italiana, intenzionata a sviluppare il progetto di una mostra alla Biennale di Venezia sulla legacy artistica della stessa Lafanu, esplora la possibilità di indagare questo archivio e allo stesso tempo produrre un contro-archivio che sia testimonianza diretta di una presenza plurisecolare in Europa di persone afrodiscendenti ben prima dell’arrivo dagli Stati Uniti di neri liberi interessati al Grand Tour in Italia e dei Black soldiers degli eserciti impiegati nei due conflitti mondiali, e dell’arrivo di persone dai Paesi del Corno d’Africa e dell’Africa occidentale.
Lafanu e Leila sono accomunate anche dal fatto di essere circondate da bianchi le cui azioni sono animate dal complesso razzista del white saviour. Ad esempio, Betsebea McKenzie, vedova bianca e affetta appunto da tale sindrome, aveva pensato di riscattare Lafanu dalla “selvatichezza” dei rituali dei nativi versando alla zia pochi spiccioli e coltivando l’illusione di fare della Brown, una volta spedita in un collegio di città, “l’esempio migliore della sua razza”. Così soleva esprimersi a proposito dei neri:
«i miei negri – come se fossero scimmiette ammaestrate di sua proprietà – sono l’unica mia ragione di vita.»
Anche Dafne Balduzzi, artista con un amante molto ricco, e inserita nei circuiti giusti dei vernissages malgrado priva di talenti particolari, vorrebbe ritagliarsi un ruolo nel progetto che Leila sta curando per la Biennale di Venezia, e tenta un approccio con queste parole:
«Mi hanno detto che hai un nuovo progetto… sui migranti. […] I migranti vanno così di moda nel nostro ambiente. Fai un quadro su di loro o una fotografia con lo smartphone e poi li vendi a peso d’oro. […] Presto scriverò un libro sulla mia esperienza nel Mediterraneo… È così appagante essere buoni.»
Alla luce di queste affermazioni, che colgono tendenze inquietanti dell’arte fotografica e del foto-giornalismo col moltiplicarsi di archivi bianchi che accumulano scatti a corpi neri e sofferenti, comprendiamo come la scelta di utilizzare un’opera di Ayana V. Jackson sulla copertina del libro non sia dettata da ragioni meramente estetiche. Sottrarsi allo sguardo bianco significa sottrarre al potere bianco le categorizzazioni, le narrazioni e il monopolio dei saperi. Igiaba Scego con questo romanzo ci regala «occhi nuovi per guardare il mondo che attraversiamo ogni giorno. Lenti per capire il passato e per acchiappare il futuro».✎
Incipit
«Il primo a dare la notizia della strage fu Le Journal de Saint-Pétersbourg, seguito a breve distanza dal Times di Londra. Poche, scarne informazioni. Qualche parola d’occasione. Il buio di un lutto inaspettato.
Le notizie provenivano dall’Africa Orientale, e furono accolte da Roma con uno sgomento di ora in ora più crescente.
Erano morti degli italiani.
Erano morti in battaglia, o forse in un agguato. […] L’unica certezza era che degli italiani erano morti lontano da casa, ed erano morti molto male.»
Leggi anche l’intervista in esclusiva di Afrologist all’autrice Igiaba Scego, a cura di Daria Forlenza:
Un grazie speciale a Igiaba Scego e a Bompiani che ci hanno spedito il libro per poterlo recensire, è stato un onore ed un immenso piacere!
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[…] Questa tematica spicca, e volutamente. Leggendo l’ultimo romanzo dell’autrice, La linea del colore (Bompiani, 2020), ho poi scoperto che insieme a Oltre Babilonia (Donzelli, 2008), Adua è il […]
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