Recensione a due voci: sguardi su un romanzo polifonico

Adua ✏ Igiaba Scego

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo

Tempo di lettura: 9 minuti

  • Adua, Afrologist

Adua, Igiaba Scego, Giunti, 2015.

Adua, la protagonista del romanzo di Igiaba Scego (Giunti, 2015), si confida all’elefantino di Piazza della Minerva, a Roma. Prendendo spunto da questo dialogo, abbiamo trasformato la recensione in una conversazione, non ad un obelisco, ma a due voci, ed entrambe umane! Ecco la chiacchierata tra Veronica e Adele, buona lettura!

Veronica: Ho trovato Adua un romanzo particolare. Quasi che nelle prime pagine si fa fatica a seguirne il flusso. Si parla di una giovane donna, della sua storia, ma anche di suo padre, di suo marito e del loro Paese d’origine: la Somalia. Si parte con un’Adua molto piccola, che vive nella boscaglia, cresciuta insieme alla sorella da quelli che, solo in seguito, si scopre non essere i suoi genitori. È lì che inizia il suo viaggio, prima dal villaggio sito nella fitta boscaglia fino a Magalo. Poi da lì a Roma, in Italia, dove le sue vicende si intrecciano con quelle dell’uomo che diventerà suo marito, somalo, sbarcato a Lampedusa. La temporalità del racconto, a tratti, va a gambero. Segue, per la maggior parte del tempo, il flusso dei pensieri e delle considerazioni. [Che poi, alla fine, è un po’ quello che ci viene naturale fare quando riflettiamo su ciò che ci è successo nella vita, no?]
Si passa quindi da un’Adua bambina, che sogna un futuro luccicante, a un’Adua ragazzina che, improvvisamente, si ritrova adulta e disincantata. Ho trovato questo passaggio brusco, duro, ma anche necessario. In tutto questo, Adua si ritrova a Roma, a fare i conti con un passato che torna costantemente a bussarle alle porte della mente. Il modo in cui è stata portata in Italia. Il film, che nella sua testa l’avrebbe trasformata in una moderna Marilyn Monroe, si rivela essere un film erotico, che la porta bruscamente a guardare con tutt’altri occhi il Paese in cui si è trasferita e chi ce l’ha portata. Ma ci sono anche i racconti del suo presente. Le confessioni di Adua donna adulta, che indirizza alla sua amica in Somalia, che tenta prima di metterla in guardia e poi di darle consigli su come gestire la situazione in cui si ritrova. A questo, poi, si aggiunge il suo matrimonio con un uomo somalo, approdato a Lampedusa, con il quale non condivide nulla, se non la provenienza geografica.
Ho trovato questo modo di impostare la narrazione molto coinvolgente, anche se non lineare. Anzi, forse proprio per questo. Ma Adua, e qui intendo il romanzo, è molto di più. Non credi anche tu, Adele?

Adele: Il romanzo è infatti incredibilmente vasto, mi tornano alla mente moltissime immagini sparpargliate dalle tue parole. La figura di Hagi Mohamed Ali detto “Zoppe“, il padre di Adua, ad esempio, apre tutt’altri temi e offre al lettore scorci della Somalia coloniale e del rapporto multisfaccettato con l’invasore italiano. Nel presente, Zoppe è tormentato in modo paranoico che Adua e il resto del mondo non lo considerino un nazionalista, bensì un collaborazionista. Traduttore per l’esercito regio e poi fascista, lavora tra Mogadiscio e Roma per raccimolare un gruzzolo e poter sposare Asha la Temeraria, disinteressato verso il destino della propria terra e della propria gente. Dopo aver assaggiato il razzismo in terra italica, finisce assunto dal conte Anselmi con il quale ritorna nel Corno d’Africa, nelle attuali Somalia, Etiopia ed Eritrea, ed è testimone talvolta reale e talvolta attraverso delle visioni di fatti storici quali l’uso di gas chimici come armi di guerra, del casus belli a giustificazione dell’invasione dell’Etiopia, e le rappresaglie ad Addis Abeba dopo l’attentato al Vicerè Graziani. Zoppe è un personaggio molto solo. Stenta a rapportarsi con la moglie e con la figlia Adua, soprattutto dopo aver visto il film erotico, ed è solo a Roma, dove viene malmenato e torturato. Sembra alieno anche ad Addis, pur non essendo affatto estraneo alla città dove era stato da bambino con il padre, dove aveva quindi degli amici e dove aveva imparato l’amarico e il tigrino. Mi sono spesso chiesta durante la lettura se Zoppe non si pentisse mai di sapere così tante lingue e di essere quindi complice, più o meno consapevole, non solo degli italiani, ma anche dei locali che offrivano il loro aiuto ai fascisti in colloqui segreti dove fungeva da interprete.

V.: Verissimo, Adele! La figura del padre di Adua è molto importante e mi è apparsa decisamente una delle più complesse create nel romanzo. Il suo tormento interiore, dato dal suo passato e dai suoi timori per il futuro, suo, della sua terra e di sua figlia, fa da guida a tutte le diverse parti del romanzo. Le considerazioni e storia di Zoppe diventano un po’ ciò che, da lettrice, attendevo al termine di ogni sezione che seguiva le vicende di Adua. Un po’ quello che mi restituiva una dimensione più oggettiva a ciò che stavo leggendo.

A.: Se c’è una cosa che ho imparato ad apprezzare nella narrativa di Igiaba Scego è proprio questa sua abilità nell’intrecciare vite, destini e contraddizioni tutte umane.

V.: Una delle sue tante abilità come scrittrice, direi.
Forse è proprio per questo motivo che nel romanzo, il tema che viene maggiormente approfondito è sicuramente quello della migrazione. E la cosa interessante, per me, è il fatto che, all’interno dello stesso libro, l’argomento venga affrontato sotto molteplici punti di vista e prospettive –insomma, quello che dicevi anche tu, Adele, l’intreccio di vite, destini e contraddizioni umane. Da un lato c’è la migrazione di Adua, protagonista indiscussa delle pagine di questo romanzo, dall’altro lato, invece, c’è l’essere migrante di Zoppe, suo padre. Già a questo punto il tema “migrazione” assume diverse sfaccettature: da un lato una donna con determinati sogni e aspirazioni, arrivata in Italia quando aveva diciassette anni negli anni settanta, dall’altra un uomo la cui storia di migrazione si mescola con la complessa storia coloniale del nostro Paese e con l’epoca fascista. Non solo.
Alle prospettiva di padre e figlia, poi, se ne aggiunge prepotentemente una terza: quella del giovane marito di Adua. Il giovane somalo arrivato a Lampedusa con cui la moglie non condivide davvero nulla, come se, oltre a generazioni differenti, appartenessero anche a mondi differenti. Adua e il marito, infatti, pur essendo entrambi migranti, ed entrambi provenienti dalla Somalia, non condividono alcun punto di vista o tratto caratteriale. E questo, secondo me, è ciò che dà un terzo punto di vista sulla migrazione e l’essere migranti. Anche se la figura del marito non è troppo presente direttamente nelle pagine del romanzo, trovo che sia un’angolazione del racconto altrettanto interessante. E dona una terza dimensione, insieme a una terza temporalità, al tema della migrazione.

A.: Per dare stabilità ad un piano, servono sempre tre punti di appoggio. Ciò che forse mi ha affascinato di più di questo romanzo è infatti come la Scego sia riuscita a dare profondità a questi tre punti di vista: Adua, il marito e Zoppe, come dici, sono tutti e tre di origine somala, e verrebbero molto probabilmente appiattiti nel comune sentire come un tutt’uno in base all’origine; i tre invece appartengono a tre generazioni e hanno tre vissuti profondamente diversi, pur con dei punti in comune. L’intreccio delle loro esperienze ripercorre un pezzo di storia non solo della Somalia e del Corno d’Africa, ma anche un pezzo di storia italiana troppo spesso dimenticata, come l’autrice ribadisce costantemente con la sua arte e il suo lavoro di giornalista. Magalo, Mogadiscio, Addis Abeba e Roma si rivelano i nodi di reti familiari e amicali tutt’altro che nuovi. Nodi mutevoli e in divenire, così come le storie dei rispettivi Paesi e delle persone a ciascun capo del filo. Ripercorrere la geografia di questa rete nei diversi momenti del tempo aiuta, o almeno ha aiutato me, a ricostruire il quadro più generale del romanzo, senza perdere i dettagli disseminati qua e là, in passaggi tanto brevi quanto potenti, come questo:

«Magalo poi non era Mogadiscio, la storia a Magalo ci passava di sbieco. Non c’era nessun Abdullahi Ciise, anima dell’indipendenza somala, a indottrinarci. A spiegare al popolino di Magalo che il valore della nostra terra eravamo noi, cittadini africani, artefici del nostro destino. Nessuno ci aveva mai raccontato che il colonialismo era il male. Anche chi conosceva la verità ha taciuto. Mio padre, per esempio, ha taciuto.»

V.: Un pezzo davvero potente.
C’è poi, secondo me, un altro tema molto importante all’interno del romanzo: quello della condizione femminile, di una donna migrante in Italia. Ecco, in questo ho trovato un parallelismo con quanto letto nello splendido E poi basta di Espérance Hakuzwimana Ripanti che affronta lo stesso tema in epoca più attuale.
In Adua, però, il tema viene presentato attraverso la strumentalizzazione del corpo femminile, il cui presupposto è comunque il fatto che la protagonista sia una migrante. Un’angolazione certamente dura, quella scelta da Igiaba Scego, ma con il medesimo scopo di far comprendere quelli che sono fattori di crisi nel rapporto con se stessi, ma anche – e forse soprattutto – con gli altri, quando si è una donna migrante in Italia.

A.: Questa tematica spicca, e volutamente. Leggendo l’ultimo romanzo dell’autrice, La linea del colore (Bompiani, 2020), ho poi scoperto che insieme a Oltre Babilonia (Donzelli, 2008), Adua è il secondo capitolo di quella che la Scego definisce “la trilogia della violenza coloniale“. Il filo conduttore delle tre opere è appunto la violenza patriarcale e coloniale. Come la scrittrice spiega nella postfazione de La linea del colore:

«Ho voluto indagare cosa succede alle persone quando una violenza che non è solo sessuale, ma anche sistemica, attraversa i loro corpi. Violenza che, badate bene, ha in questi libri la sua patente di identità: una violenza patriarcale e coloniale. E in tutti i tre libri le protagoniste cercano una via di fuga alla depressione che le avvolge.»

Adua, così come Lafanu Brown (La linea del colore) e Zuhra (Oltre Babilonia), prosegue l’autrice, «ritrovano se stesse grazie alla caparbietà di voler essere qualcuno nonostante tutto». Attraverso questa chiave di lettura, l’esperienza di vita di Adua si fonde con quella di tutte le donne che, ieri e oggi, subiscono le medesime violenze strutturali.

V.: Figure femminili forti, tutte e tre, in effetti.
Ecco, forse è per questo che a posteriori, e dopo essermi confrontata con te, Adele, sono riuscita a selezionare un passaggio da inserire qui. Sono stati tanti, infatti, i passaggi di questo romanzo che mi hanno colpita, ho fatto fatica a selezionarne uno. Ho scelto quindi di riportare quello che, più di tutti, mi ha trasportata nella testa di Adua. Non solo, si tratta del pezzo in cui l’essere donna di Adua emerge fortemente. Insomma, una delle ragioni che hanno contribuito a farmi divorare con curiosità questa lettura:

«Sapevo che miravano al mio corpo.
Non ero così ingenua.
Sapevo che prima o poi avrei dovuto pagare quella tassa.
Un’amica mi aveva preavvertito.
“Ti chiederanno il tuo corpo. Gli italiani con mia nonna hanno fatto così. Non credo che questi siano così diversi, sai? Devi solo capire se vuoi pagare questo prezzo o no.”
Per diventare Marilyn avrei pagato qualsiasi prezzo.
O almeno così pensavo allora.»

Come in un vero club di lettura, potremmo scrivere e chiacchierare all’infinito su un libro, ma per oggi ci fermiamo qui, ancora più convinte del fatto che di un romanzo polifonico si debba parlare appunto in polifonia –anche correndo il rischio di risultare un po’ stonate o ripetitive.✎

Incipit

Adua, Afrologist

«Sono Adua, figlia di Zoppe. Oggi ho ritrovato l’atto di proprietà di Laabo dhegah, la nostra casa a Magalo, nella Somalia meridionale. Era nascosto in una vecchia valigia di peltro che tenevo in magazzino, era in quel posto da secoli e io non me ne ero mai accorta.
Ora sono in regola. Ora se voglio posso tornare anch’io in Somalia.»

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Adua, Afrologist© Afrologist
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