Siamo tutti creature di sabbia. Viaggio mitico nella fragilità umana

Creatura di sabbia ✏ Tahar Ben Jelloun

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo

Tempo di lettura: 7 minuti

  • sabbia, Afrologist

Creatura di sabbia, Tahar Ben Jelloun, Einaudi, 2015, a cura di Egi Volterrani.

Forse la penna marocchina più nota, Tahar Ben Jelloun nasce a Fes nel 1947. Frequenta la scuola francese a Tangeri, si laurea in Filosofia e diventa insegnante. Tuttavia, nel 1971, la lingua del sistema educativo in Marocco diviene l’arabo, così Ben Jelloun decide di lasciare il Paese recandosi in Francia. È a Parigi che perfeziona i suoi studi con un dottorato in Psicopatologia sociale, ed è sempre nella ville lumière che prende il volo la sua carriera di scrittore francofono: la sua seconda opera, L’enfant de sable, è stato tradotto in 43 lingue, un successo che Ben Jelloun confermerà con le successive La nuit sacrée (1987, Premio Goncourt), Le racisme expliqué à ma fille (1997), L’islam expliqué à ma fille (2002), Partir (2006), Contes coraniques (2015), Le mariage de plaisir (2016), L’insomnie (2019). Innumerevoli sono le sue opere, tutte contraddistinte da una prosa poetica, plasmata con il talento di chi è capace di servire al lettore come semplici uno stile e dei contenuti che semplici non sono.

Romanzo polifonico

In Creatura di sabbia si susseguono le voci del narratore della piazza di Marrakesh, del protagonista e del suo corrispondente epistolare, dei due uomini e della donna seduti in un caffè, e del trovatore cieco. L’autore sceglie di dar vita a più di un narratore, garantendo con questa tecnica l’espressione di diversi punti di vista e l’infittimento della trama. Si ha l’impressione di essere catapultati in un passato vago e immaginario. Si è a tal punto rapiti da crederci parte di un pubblico riunito sulla pubblica piazza, tutti seduti in cerchio a gambe incrociate, in attesa che l’intrattenitore ci incanti con le sue parole, pronti financo all’incursione nella trama di nuove voci che testimonino la veridicità dei fatti o ne diano la loro versione. Avidi di storie, pazientemente in silenzio come non accade praticamente più nell’era della tecnologia e della rapidità.

«Oh compagni miei! La nostra storia non è che all’inizio, e già la vertigine delle parole mi raschia la pelle e mi secca la lingua. Non ho più saliva e le mie ossa sono stanche.»

L’impostazione del romanzo è propria della cultura orale in cui un oratore accompagna gli astanti dentro una storia che si ramifica e rivive ad ogni appuntamento. Il pensiero corre al capolavoro arabo de Le mille e una notte, che dall’oralità attinge la sua magia.

La presenza di più narratori si rispecchia, infine, nell’aura di ambiguità che avvolge la storia, tratta da un fatto di cronaca e trasformata in un racconto di formazione dal sapore filosofico.

Periodo storico

Benché l’atmosfera sia quasi fiabesca, si deduce che l’ambientazione del romanzo sia il Marocco degli anni ’40, Paese in cui a dispetto della presenza coloniale europea, permanevano tradizioni e credenze arabo-berbere molto forti, unitamente al conformismo religioso e alla rigida separazione dei sessi.

Una tradizione che allora era radicata e diffusa in Marocco è quella della ḥalqaحلقة, ossia la piazza intesa come luogo di comunicazione, scambio di idee e notizie, vetrina sociale per guaritori e artisti. Come ha sottolineato il socio-antropologo Ahmed Habouss

«tutte le piazze in Marocco erano luoghi di informazione, attività culturale, prosa e poesia. Nel tempo la piazza è divenuta un teatro all’aperto dove si sfidavano artisti con i gesti e la parola. Il termine ḥalqa ha diversi significati sul dizionario arabo, tra i quali indubbiamente “cerchio”, ma in marocchino si intende con esso un’attività culturale, un luogo in cui la cultura popolare – intesa come prettamente orale – si nutre e si perpetua.»

E quale miglior luogo di una piazza favorisce la condivisione, l’incontro, la possibilità di esprimersi di fronte a un pubblico? Questa idea di piazza in cui si riversa un sentimento di appartenenza all’universo arabo-islamico, perdura sino ai nostri giorni, sebbene abbia subito duri colpi: il colonialismo prima, l’urbanizzazione e la modificazione degli stili di vita poi, ed infine l’avvento di Internet e di forme di comunicazione alternative.

Mi preme sottolineare, inoltre, che la società marocchina degli anni ’40, appariva ancora in modo prevalente rurale e custode di riti ancestrali che l’islam ha in parte inglobato. A tal proposito, non è forse casuale che Ben Jelloun abbia optato per la scelta delle sette porte. Nel romanzo, in effetti, troviamo sette capitoli così denominati: La porta del giovedì, La porta del venerdì, La porta del sabato, Bab El Had (in it. La porta del limite), La porta dimenticata, La porta murata e La porta delle sabbie. Ognuno di questi capitoli racchiude momenti salienti delle vicende vissute dal protagonista. Sono sette, un numero ricorrente nell’islam e nei riti magici in Africa del Nord, tanto da meritare un trattato esclusivamente dedicato. Un’opera dei primi del ‘900 dell’orientalista Edmond Doutté ci introduce alla numerologia legata al 7: sono 7 i giri della Ka’ba durante il pellegrinaggio a Mecca; l’imposizione del nome al neonato avviene il settimo giorno; gli hadith sono spesso raccolti in opere da 7 o 70; 7 sono i versi della Sura Aprente, la prima del Corano; 7 i cieli, le terre e i mari creati da Allah; 7 anche gli abissi del mare con 7 porte; 7 le età della vita; 7 le parole che compongono la shahada (professione di fede islamica); 7 i giorni della settimana consacrati ognuno a un profeta.

Ogni capitolo segna un passaggio, come se la lettura si facesse rito. Ogni capitolo è una porta da varcare per accedere al mondo del protagonista ed ottenere la chiave per far luce dentro di noi.

«Questo libro è fatto così: una casa dove ogni finestra è un quartiere, ogni porta una città, ogni pagina è una strada; è una casa di pura apparenza, una scenografia in cui si fa la luna con un telone blu teso tra due finestre e una lampadina accesa.» 

Trame sulla trama

Una donna è in dolce attesa. Lei e il marito hanno già sette figlie, tutte femmine. Questo evento manda in subbuglio il capofamiglia, condannato fino a quel momento a non avere l’erede maschio e ad essere compatito da tutti per non averlo generato.

Non è fatto di poco conto: la mentalità patriarcale e tribale del Marocco di allora insisteva nel dar valore alle nascite dei soli maschi. Si tratta di un pensiero che fatica a perdere vitalità ancora oggi, perché sigillato dalla norma religiosa che discrimina le donne nell’eredità. Nel caso della famiglia del romanzo, una morte prematura del capofamiglia avrebbe portato, in assenza dell’erede maschio diretto, un ottavo dei beni alla vedova ed il resto ai parenti maschi più prossimi, cioè ai fratelli del defunto. Ciò significa che la vedova e le sue sette figlie sarebbero finite per strada. In passato la ratio della norma coranica era quella di mantenere in seno al lignaggio paterno l’eredità. Le figlie erano destinate con il matrimonio a lasciare il focolare domestico, pertanto ereditavano la metà rispetto al maschio. Questa ingiusta discriminazione ha dato vita a proverbi come questo, diffuso tra i berberi Ghrib tunisini: “L-wuled ‘amàra wa ‘ṭ-ṭufla ḫṣàra”, ovvero “il figlio maschio dona prosperità, la femmina disgrazia”. Sempre presso i Ghrib, si saluta il neonato chiamandolo terràs, uomo, e la neonata ḫaṭṭàba, raccoglitrice di legna. E se la nascita del maschio è un tripudio di zaghàrìd (gli youyou o trilli), il festeggiamento per la nascita di una femmina è assai contenuto. Anche il ruolo della sposa dipende dalla prole: il figlio maschio garantisce rispetto all’interno della famiglia del marito, e rende stabile la relazione di coppia.

Ecco perché all’ottavo tentativo, il capofamiglia era pronto a tutto pur di avere l’agognato erede. A tal punto da perdere il lume della ragione e di ordire, con la moglie e l’anziana nutrice, un terribile piano: se il neonato fosse stato una donna, sarebbe comunque stato un uomo, e loro avrebbero custodito il segreto. Così avvenne e così ha inizio la storia di Ahmed-Zahra.

Una storia travagliata, un romanzo di formazione che ci interroga potentemente sulla nostra identità intima e sull’identità impostaci dall’acculturazione sociale.

«- Chi sei?
Avrei potuto rispondere a qualsiasi domanda, inventare, immaginare mille risposte, ma quella era la sola, l’unica domanda che mi sconvolgeva e mi rendeva letteralmente muta.» 

La vita di Ahmed-Zahra, sostiene il narratore «fu come una pelle screpolata, a forza di subire mute e di farsi maschere su maschere».

Si respirano tanta solitudine e tenerezza “ascoltando” questa storia che svela una denuncia contro la discriminazione della donna in quanto tale nella realtà arabo-islamica. Ed il dolore che emana è solo in parte diluito dalla sua veste di racconto intriso di leggenda.✎

INCIPIT

sabbia, Afrologist

«Quel volto era reso più lungo da alcune rughe verticali, profonde come cicatrici, scavate da insonnie ostinate e abituali, un volto mal rasato, lavorato dal tempo. La vita – ma quale vita? una apparenza strana di memorie distrutte – doveva averlo malmenato, contrariato, o forse anche turbato profondamente. Ci si leggeva o indovinava una ferita profonda che un gesto malaccorto della mano o lo sguardo troppo insistente di un occhio scrutatore o malintenzionato potevano riaprire.»

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