Sipikat e assassini: quando il polar fa tappa in Senegal

Vita a spirale ✏ Abasse Ndione

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo

Tempo di lettura: 6 minuti

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Vita a spirale, Abasse Ndione, e/o Edizioni, 2011, traduzione dal francese di Barbara Ferri.

Vita a spirale, romanzo polar del senegalese Abasse Ndione, ha conosciuto un notevole successo sin dalla sua prima pubblicazione a cura delle Nouvelles Éditions Africaines du Sénégal nel 1984, anno in cui il maliano Modibo Sounkalo Keïta riceveva il Grand prix littéraire dell’Afrique Noire per L’Archer bassari, archetipo del romanzo polar africano in lingua francese.

La fortuna del romanzo polar

Il genere polar, che cuce le strategie narrative proprie del romanzo poliziesco su personaggi che sono incarnazione ed espressione della cultura delle classi popolari, nella galassia letteraria dell’Africa francofona, è stato spesso considerato uno scarto di “sotto-letteratura”, tacciato dall’intelligentia africana di essere un “passatempo borghese”, come ha scritto Fanny Brasleret.

In realtà il largo successo di pubblico che ha baciato questa costellazione così particolare nell’ambito dei generi narrativi, è legato a molteplici fattori. In primis il mutato contesto politico di produzione della letteratura stessa. Dal ritiro francese dal Senegal alla pubblicazione de La vie en spiral, infatti, sono trascorsi appena ventiquattro anni. La letteratura senegalese attraversa questa congiuntura storica interrogandosi su nuovi temi: l’atmosfera politica del post-indipendenza e il ruolo della religione in una società che si scopre meno secolarizzata del previsto eppure animata dalle controculture giovanili che picconano perfino i totem della fede.

Altro fattore importante fu l’avvento di una letteratura di massa che parla la stessa lingua dei suoi lettori e che è allo stesso tempo immersione e radicamento in una società chiamata a fare i conti con la corruzione, l’incremento del tasso di criminalità e lo sfaldamento dei valori comunitari. In ultimo, una certa plasticità del genere polar a incrociare registri linguistici differenti – il francese amministrativo dell’autorità e del potere, e il wolof popolare non di rado declinato secondo uno slang criminale  – e a farsi interprete di un bisogno di comprensione del reale non intercettato dalle altre forme del romanzo.

Una trama rocambolesca

Le pagine iniziali dell’opera si aprono col racconto ironico della sconfitta dei Gaïndé, i giocatori della nazionale di calcio del Senegal, impegnati nella partita di ritorno contro la selezione ivoriana nel girone di qualificazione alla fase finale della XIII Coppa d’Africa delle Nazioni. In un hotel di Abidjan, alcuni degli astri della nazionale senegalese, la sera stessa del loro arrivo nella capitale ivoriana, sono scoperti a fumare yamba e messi in prigione.

La notizia dell’arresto riecheggia sdegnosamente nel Paese della teranga: esercito, polizia e guardia costiera ricevono l’ordine di radere al suolo i campi di canapa, nella striscia di terra compresa tra Géjawaay e Saint-Louis, e sgominare le reti di produzione e commercializzazione del “tabacco dei geni”. Due sono gli elementi interessanti che emergono da questa particolare ambientazione.

Il primo è il riferimento, da “prosa del reale”, alla XIII Coppa d’Africa effettivamente disputata in Libia e vinta dalla nazionale ghanese nel 1982, anno in cui nelle radio senegalesi spopolerà Omar Pene con la sua band, la Super Diamono, per la canzone Jaraaf dedicata all’omonimo club di calcio di Dakar.

Il secondo elemento è strettamente intrecciato al primo. La costruzione di un racconto calcistico che apre il romanzo aiuta a stabilire una “connessione sentimentale” tra l’autore ed il suo pubblico di lettori. Il calcio, “la felicità degli uomini semplici”, per riprendere il fortunato titolo della raccolta di storie brevi composte da narratori africani e curata dal congolese Alain Mabanckou per la casa editrice 66thand2nd, diventa un rito letterario per la gioventù del continente.

Sullo sfondo di questa caccia alla streghe contro i sipikat, gli spacciatori, e i fumatori di yamba, scorrono la vita e la morte di un gruppo di giovani amici del villaggio di Sambey Karang fustigato dalla calura e dall’assenza di piogge che vengono propiziate con una cerimonia espiatoria e l’immolazione di un toro perché

«a Sambey Karang, le tradizioni animiste erano ancora salde, malgrado l’islamizzazione totale.»

Amuyaakar Ndooy, narratore interno e protagonista principale del romanzo, Laay Goté, Yaba Xanca, Bukari e Badara sono soliti fumare spinelli e s’ingegnano per sopperire all’interruzione della filiera dell’erba proibita. Provano prima con lo xompaay, la pianta degli spiriti maligni, ma finiscono in ospedale in preda a febbri deliranti e convulsioni. Una volta guariti dall’intossicazione da stramonio entrano in contatto con Ameth Ndaw, allievo della Scuola Ufficiali dell’Esercito che procura loro lo yamba ormai introvabile. Dopo un mese e mezzo di astinenza, i cinque amici rollano canne nel loro rifugio segreto, un blockhaus immerso nella boscaglia di Amsondeng.

Mentre nell’edificio l’odore della carne grigliata si mescola con quello resinoso dell’erba bruciata, Amuyaakar Ndooy matura il proposito di diventare sipikat acquistando lo yamba direttamente dagli stessi contadini della Casamance da cui si rifornisce l’allievo ufficiale. Coi cervelli arrostiti dai fumi,

«la conversazione si fece ricca, brillante, contraddittoria: la vita incerta e la morte ancora più incerta, la letteratura, i colpi di Stato, le religioni rivelate, la democrazia trasformata in corrente di pensiero, Bob Marley, la prostituzione, i marabutti, gli interventi stranieri in Africa, i rapporti sessuali, l’apartheid.»

Se lo yamba scioglie e libera parole impronunciabili, è altrettanto vero che accelera, per Amuyaakar Ndooy, il turbinio di sogni imprenditoriali nel mondo del crimine. Amuyaakar Ndooy, tassista abusivo, sceglie il rischioso mestiere del sipikat per mero calcolo economico.

L’elemento hippy ed anticonformista del libero uso di cannabis si intreccia con una sorta di connotato yuppie di un giovane uomo che rompe le regole del villaggio di nascita per avventurarsi nel mondo scintillante e conturbante della città e costruire una carriera professionale nell’imbuto di un vortice criminoso che gli frutterà cospicui guadagni e una vita matrimoniale in cui ci sarà spazio per più di una moglie, ma che gli costerà la perdita degli amici.

Dai campi di canapa della Casamance fino ai locali alla moda di Dakar, Amuyaakar Ndooy incontrerà un universo popolato da poliziotti e giudici corrotti, faccendieri bianchi misteriosi e contadini custodi di un sapere magico e al tempo stesso intriso di razionalità.

Religione e magia

La piccola comunità di Sambey Karang non vede di buon occhio il consumo di cannabis ritenuto contrario ai precetti della religione islamica. Gli anziani convocano una riunione nel corso del quale Bukari prende la parola sferzandoli con una sequela di invettive:

«Voi anziani vi preoccupate soltanto del vostro rosario e della vostra pelle di pecora.»

Nell’ammonimento pronunciato da Bukari si cela una profonda insoddisfazione nei confronti del posto che la religione è venuta ad occupare in una società che imbriglia qualsiasi possibilità di autodeterminazione in nome di un’adesione totale, a tratti ipocrita, alla fede musulmana. Non è in discussione l’Islam ma l’uso che se ne fa per prescrivere comportamenti sociali che nessuno rispetta sino in fondo.

La costanza della presenza dell’elemento magico è tipico di questo polar. La carriera di sipikat di Amuyaakar Ndooy, infatti, prende avvio con la consegna allo stesso di un talismano da parte di Fa Kébuté, marabutto amico di Jombiku, il primo contadino che aiuta Ndooy a sfondare come procacciatore di yamba di altissima qualità.

Il bracciale che riceve in dono è un gri-gri di cuoio che prima di essere bracciale era stato un serpente nero bicefalo. Il segreto di questa vita a spirale è tutto qui: nel precario equilibrio tra due spiriti, entrambi a forma di serpente, uno buono e l’altro malvagio.

Incipit

polar, Afrologist

«Il DC 10 della compagnia Air Afrique che riportava i Gaïndé s’immobilizzò in fondo alla pista. Bigé Pay, il commissario tecnico, lanciò un’occhiata dall’oblò e vide che ad aspettare c’erano i membri della Federazione nazionale calcio e alcuni giornalisti. In tutto una dozzina di persone.
“L’accoglienza non è proprio la stessa di quattro giorni fa” disse, voltandosi verso i giocatori e i dirigenti della squadra seduti dietro di lui.
Si sganciò la cintura di sicurezza e si alzò, un sorriso beffardo sulle labbra.
“Avanti, ragazzi, si scende. Dovremo spiegare al popolo perché abbiamo perso la battaglia!”».

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