Franky Kuete, un giovane artista dal Camerun

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  • Camerun, Afrologist

Terzo capitolo di questo reportage Storytelling da Africa e Italia sugli storyteller africani o anche solo d’origine, che abitano in Italia, ovvero hanno uno speciale legame con il nostro paese.

Oggi vi parlo di Franky Kuete, un giovane artista che viene dal Camerun e che ora vive in Italia.

Il suo stile è quello dell’auto-narrazione. Prende la situazione contemporanea come soggetto, disimballando i problemi e i temi che la generazione di oggi deve affrontare, come la vita in esilio e la routine; lo sfollamento e l’esperienza moderna dei migranti; ricordi difficili e affascinanti dell’infanzia; e la solitudine universale o le sue specifiche preoccupazioni sociali e storiche innanzi a questioni esistenziali più ampie; intrecciare storie fittizie e talvolta autobiografiche, contemplando l’intersezione dei dilemmi legati a una vita in esilio.

Originario del Camerun, è in Italia da quasi quattro* anni, dopo aver seguito diversi corsi di lingua italiana a Roma. Ha partecipato a un progetto di mediazione culturale presso il Museo MAXXI nella capitale, subito dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno.

Aveva un grande desiderio di lavorare e diventare ricco, invece ha puntato a vincere una borsa di studio per l’Istituto Superiore di Fotografia di Comunicazione Incorporata. Il suo impegno attuale è quello di seguire un anno di formazione intensiva e professionale nel campo della fotografia.

Nel 2018, da poco nel nostro paese, con il racconto Scappo dalla mia ombra ha vinto il premio nella Categoria Giovani della 3ª edizione del concorso DiMMi – Diari Multimediali Migranti.

È con vivo interesse che inizio quest’intervista con Franky:

Cosa ti spinge a scrivere?

Scrivere è stato per me l’inizio di una terapia, un desiderio interiore, una forte “poussée” (impulso, spinta) a relazionarmi con il mondo. Il mio rapporto con la scrittura è una continua riflessione sul senso delle cose. Direi che è il bisogno di coniugare questo essere interiore che mi ha chiamato a riaffermarsi nella scrittura.

Mi parli del progetto L’INATTESO A ROMA EST, un Atlante dei luoghi, reali e immaginari, delle culture e delle forme di vita emergenti tra i flussi del territorio più dinamico e imprevedibile che si stende tra la città e il mondo?

L’Inatteso è stato il prodotto di una stretta collaborazione trasversale tra artisti, cittadini e realtà locali che si sono preparati ad aprire un ampio intervento esplorativo tra i luoghi e le memorie della parte orientale di Roma. Questo partendo da una lunga serie di sessioni e discussioni attorno al tavolo del Collective Stalker / Noworking e quello del Parco delle Energie per far emergere una nuova storia e rielaborare processi a partire dallo spazio fisico. L’idea iniziale è stata di costruire una narrazione dei luoghi dopo averli attraversati, aver fatto esperienza e attivato un’azione collettiva sul territorio, per rendere visibile l’invisibile offrendosi come mediatori tra i territori, le realtà sociali, gli abitanti vecchi e nuovi, per permetterci (insieme) di migliorare ciò che c’è, cercando nel contempo di comprendere meglio l’evoluzione di questi spazi in continua migrazione ecologica. Così si è costruito un Atlante di spazi immaginari; è stata una fase introduttiva per me e credo per altri artisti emergenti: imparare a riconoscere i semi trovati nella pratica urbana informale, che è un movimento di ricerca, di alternative al vivere nello spazio e agli elementi tragici che sono anche le rovine e la bellezza della nostra città.

L’atlante è stato un dispositivo immaginario ed effimero, realizzato attraverso camminate all’interno dei quartieri che vanno da Porta Maggiore, attraverso il Mandrione fino ad abbracciare Tor Sapienza, che hanno prodotto un’esperienza unica e imprevedibile di questi intrecci di vite e culture che si mescolano in un insieme di costruzioni inerti. Siamo stati invitati in questi spazi a volte in modo casuale, perché abbiamo dovuto immergerci nella loro oasi senza nemmeno chiedere un appuntamento o il permesso. Una scelta che all’inizio non è stata compresa da tutti. Ci sono state discussioni su questo tema, specialmente per le persone che non avevano mai avuto esperienze del genere. Andare oltre i margini della città, farlo in piena immersione nei quartieri popolari sovraffollati o incontrando la comunità Rom richiede una certa dimensione di apertura verso l’altro, o meglio dell’evento inatteso, letteralmente.

Il percorso è reso possibile grazie al collettivo Stalker, che ci ha accolto nello spazio condiviso NoWorking e che progetta e pensa da anni, infiltrandosi in queste aree in costante cambiamento, senza le quali probabilmente saremmo persi.

Da quanto ho letto in rete, ho visto che ti appassioni anche di arte. Come vedi quest’ultima come strumento per raccontare storie?

Credo si debba stare attenti a proclamare l’arte come strumento, perché significherebbe negare la sua immaterialità. L’arte senza nessuna approssimazione è un bisogno vitale, fuori da ogni tentativo formale. Ho una profonda riconoscenza verso il valore artistico in sé, per le sue battaglie per la sua interminabile ricerca e la sua irripetibilità nel corso del tempo. L’arte può essere di ottimo aiuto nell’ambito sociale e culturale, visto che sconfigge le realtà germinando anticorpi misurabili. Un’Arte che si muove in modo lateralmente possibile ai bisogni. Intendo accanto alle esigenze e non come un semplice strumento per il libero arbitro.

Pensi che la narrazione orale, dal vivo, possa risultare un modo efficace e gratificante per narrare i tuoi racconti?

Certo! La narrazione orale è una tra le espressioni che tende a rimanere naturale per l’essere umano, permette di dar voce a una storia rappresentata; nel senso che il corpo e la voce che lo mette in atto compie l’azione diretta di trasmettere storia e emozioni.

Quanto c’è di autobiografico c’è nella tua scrittura?

Credo che ci sia abbastanza di me nei miei testi. Non è nemmeno un fatto casuale se c’è quasi spesso un “io” che narra o un “io” che vede gli eventi accadere e che subisce entrambi. E verificabile che questo “io” mi aiuti a rendere le situazioni attuali più credibili per chi vorrà leggere il testo, e allo stesso tempo mi sembra la forma più spontanea che mi riesce meglio. Infatti essa è relativa alla mia persona, al mio continuo cammino che fa emergere anche uno spessore quasi nomade e popolaresco, ma non pregiudiziale. C’è anche il desiderio di un una persona che vuole manifestare la voglia di un mondo unito sul dialogo e sui valori comuni, non decisamente limitati a se stessi.

Mi parli del racconto Scappo dalla mia ombra, ambientato in Camerun? Come è stato per te scriverlo e soprattutto vederlo letto e premiato?

Improvvisamente a Roma, faccio la conoscenza dell’istruttore Yves Legal di Civico Zero*, il quale mi presenta Sandro Triulzi, per partecipare all’edizione 2018 del Concorso (DiMMi). Praticamente è da li che seguono notti in bianco a ricordarsi, scrivere e connettere pezzi del vissuto nella circoscrizione di Brazzaville, a Douala, Camerun. Avevano desiderio che raccontassi il mio percorso migratorio, ma vedevo più accattivante parlare dei momenti dell’infanzia, cercando di auto rappresentare quella generazione che sta combattendo contro i vincoli della vita in città. Il riassunto di una vita simile a quella dei ragazzi di Douala e probabilmente dei piccoli quartieri in via di trasformazione. Scappo dalla mia Ombra in parte è un racconto che parla più precisamente del cambiamento della giovane nazione che è il Camerun. Ho cercato di dare a questa storia tante sfumature per poter riflettere sui cambiamenti sociali di questa parte del territorio che tra gli anni novanta e il duemila ha raggiunto l’era Urbana.

Ho avuto abbastanza difficoltà a dare una forma omogenea al testo. Mi riferisco al senso puramente tecnico e anche al fatto che avevo scritto il racconto in due lingue diverse. Mi veniva naturale scrivere in francese e un altro giorno, però, mi ritrovavo a pensarlo in italiano. È stato assai complicato, ma in questo lavoro sono grato ancora a Yves Legal, il quale è di origine francese. Una persona di cuore, che mi ha dato un aiuto per la traduzione.

Vedere quel testo premiato è stato come ottenere un riconoscimento per l’impegno che ci ho messo. Visto che era il primo dei testi che ho voluto condividere, vederlo premiato mi ha rivelato quanto fosse importante scrivere e soprattutto condividere con gli altri  il passato, i sogni, e le speranze.

In che modo le tue origini, il Camerun, influiscono su ciò che racconti? E sulla tua vita?

Le mie origini influiscono nel senso culturale trasmesso dai legami con la famiglia e la terra. C’è anche una parte definitivamente storica e linguistica dovuta all’impostazione statale della tradizione francofona, che sembra essersi placata nella mia persona sensibile e riflessiva. Comunque rimango tra quelli che non hanno mai avuto una nazione. E senza abbassare il volto, vorrei precisare che la cultura francofona è stata il mio passaporto per accedere al mondo.

In futuro pensi che concentrerai il tuo impegno artistico sulla tua identità o intendi spaziare anche su altri argomenti?

Lavorare su altri argomenti rimane una sorta di tentazione. Occorrerà un allontanarsi per poter guardare da lontano con occhi dritti e ben fissati. Bisognerà sicuramente ragionare in profondità su come affrontarli.

Su cosa stai lavorando, in questo momento?

In questo momento, oltre all’impegno che metto nell’utilità sociale e l’agricoltura in città – che seguo in un progetto che si chiama Coltiviamo l’inclusione lavoro su alcuni dei vecchi taccuini, in cerca di narrazioni per nuovi testi che ho potuto scrivere, assemblare e rieditare durante il periodo del confinamento.

Concludo con una domanda, che mi permetto vista la tua giovane età: cosa vuoi fare da grande?

Contribuire a una cultura sostenibile del mio tempo è per me una delle grandi sfide in cui mi devo impegnare. Concentrerò il mio tempo per i più giovani, quelli come me che non hanno avuto la chance di poter nascere nel posto “giusto”. Mi soffermerò su loro, cercherò di trasferirgli gli attrezzi necessari per confrontarsi con le loro realtà. Visto il rischio che si rivela sempre imprevedibile per ogni generazione, ci vorrà un impegno e reti per evitare che essi diventino estranei nella comunità in cui vivono. Il mio desiderio da grande sarà questo, propagare una dose di felicità sufficiente.   

Non vorrei essere indifferente davanti alla sagacia del presente, quindi ci sarà un momento in cui smascherare le repressioni politiche dietro personaggi più o meno carismatici. Oggi risulta molto difficile scrivere di questi argomenti, ma se le testimonianze del passato non hanno cambiato le cose, vuole dire che servirà ancora gridare contro questi aspetti estetici della società mondiale.

*Correzioni apportate il 19/07/20 in accordo con l’intervistato.

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