Un mercenario-vignaiolo e un etologo tra Italia, Ruanda e Belgio

L’Africano ✏ Mario Cavatore

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo

Tempo di lettura: 5 minuti

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L’Africano, Mario Cavatore, L’Arcipelago Einaudi, Einaudi, 2007.

Due uomini: Umberto Narello, detto Berto o Bébert, italiano di mestiere mercenario e vignaiolo, e Léon Van Leeuw, detto P’tipò, belga di padre polacco ed etologo di professione. Un’unico soprannome dato da sconosciuti in Italia e Belgio: l’ “africano”. Due storie che si intrecciano in un arco temporale che va dal gennaio 1994, pochi mesi prima del genocidio in Ruanda, al gennaio successivo. A fare da sfondo alle vicende di finzione del romanzo quindi, troviamo una delle pagine più orrende della storia contemporanea.

Dal 6 aprile a metà luglio 1994 in Ruanda infatti, dalle 500 mila al milione di persone sono state massacrate, in maggioranza tutsi. Per approfondire le radici del genocidio, a partire dalla storia precoloniale e coloniale – sotto il controllo prima tedesco, poi belga -, e la costruzione delle due presunte “etnie” hutu e tutsi, consiglio la lettura del saggio storico-antropologico di Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, edito da Bollati Boringhieri (2000).

Il primo “africano” che incontriamo è Bébert che, da Monforte d’Alba (Piemonte, Italia), approda in Ruanda dopo vicissitudini che lo avevano portato ad arruolarsi prima nella Legione straniera francese di stanza in Zaire (attuale Rep. Democratica del Congo) e a diventare in seguito mercenario in Togo.

«L’unico mestiere che sapesse fare, oltre al soldato, era il vignaiolo, e il caso lo portò in Ruanda.
Un paese piccolo, che chiamavano la Svizzera d’Africa: tanta agricoltura, niente malaria, buon clima, paesaggio rilassante.
Aveva creduto di essersi sistemato. Invece pochi anni di quasi pace, poi il crollo del prezzo del caffè, la sovrappopolazione, la crisi economica, la corruzione, l’odio etnico montato ad arte ed ecco anche qui la violenza, il sangue, il sospetto, la paura.
»

In Ruanda aveva comprato una vigna in malora da un vecchio agronomo belga e, insieme a questa, i lavoratori e il personale della casa. A capitoli alterni, scopriamo le vicende della vita domestica di Bébert, sposatosi con una bella e giovanissima ragazza tutsi, Mariyá, non felice dell’unione benedetta dal padre. Apprendiamo poi della presenza di una seconda donna, Bwiza, un’antipatica ed opportunista hutu che Bébert sfrutta per le sue voglie e che svolgerà un ruolo orrendamente cruciale nelle loro vite.

Poco prima dell’inizio del genocidio, ecco entrare due nuovi personaggi nelle vite di Bébert, Mariyá e Bwiza: Huba, ragazzina tanzaniana data loro in regalo da Polycarpe, membro dell’Hutu Power e comandante della milizia paramilitare Interahamwe, legato alla vigna in quanto maggiore cliente; e uno sconosciuto bianco, trovato da alcuni locali incosciente e con un forte trauma alla testa vicino al corpo tagliato a metà di quella che doveva essere la sua guida ugandese. I due uomini erano stati trovati all’inizio della pista per i gorilla di montagna, nella foresta dei Monti Virunga divenuta famosa per il lavoro e la morte della zoologa americana Dian Fossey. Affidato alle cure di Huba per via della sua salute instabile e la perdita completa della memoria, lo sconosciuto finirà per affezionarsi alla ragazza.

«Ma Mariyá difende il suo progetto, dice che questi due disgraziati hanno diritto a un po’ di felicità, anche se temporanea… d’altronde tutte le felicità sono temporanee. Bébert su questo è d’accordo, anche se non ne ha ancora esperienza diretta.»

Lo sconosciuto si rivela essere proprio Léon, il secondo “africano”. La sua storia viene raccontata da un punto di vista femminile, quello dell’assistente sociale Elsa a cui viene affidato una volta rimpatriato in Belgio durante i massacri. Nata nel suo stesso quartiere di Ixelles, Matonge, nella grande città di Bruxelles, Elsa mette anima e corpo nel caso di Léon per aiutarlo a ricordare e a rifarsi una vita. Attraverso gli occhi della donna, ripercorriamo i passi della vita di Léon e le sue ricerche scientifiche sui bonobo.

«Secondo Léon i bonobo, lungo la strada dell’evoluzione, hanno scelto una via diversa, alternativa, a quella degli altri primati, uomo compreso: hanno sostituito all’aggressività, come mezzo di soluzione dei conflitti nel gruppo, la sessualità.»

Andato quindi in Ruanda per corroborare la sua tesi studiando i gorilla di montagna, Léon si ritrova a fare esperienza dell’aggressività gratuita dell’uomo e dell’assurdità generata dall’applicazione sistematica su grande scala della violenza. In questa cornice, lo svilupparsi delle due storie non può avere un lieto fine. Con una narrazione pulita, a tratti ironica, l’autore riesce a restituire quest’assurdità dalla prospettiva dei suoi personaggi che, sebbene non siano ruandesi e quindi nel mirino dei massacri, ne rimangono toccati e profondamente segnati in quanto esseri umani.

Mario Cavatore, nato a Cuneo nel 1946 e morto il giugno scorso, nella vita ha fatto l’operaio, l’elettrotecnico, l’artigiano e ha pubblicato due romanzi. Dopo aver esordito con il suo primo romanzo a 58 anni, Il seminatore (Einaudi, 2004), decide di approfondire la storia del genocidio in Ruanda e di utilizzare questa volta il punto di vista di un cuneese come espediente per avvicinare la vicenda ai lettori italiani, e in particolare piemontesi della provincia granda. «Ciò che succede nel resto del mondo coinvolge anche noi. […] Tutto il mondo si tocca, è a contatto», dice in una delle rare interviste. Avido lettore e amico di Nuto Revelli, si definisce un “malato di giustizia”, senza però identificarsi nello stereotipo di scrittore impegnato, e preferendo pensare a se stesso come romanziere che cerca di dare la voce a chi non ce l’ha.✎

Non si trovano molte informazioni su Mario Cavatore, ma ecco una rara intervista all’autore di Radio Télévision Suisse sui suoi due romanzi, L’Africano (2007) e Il seminatore (2004):

Incipit

africano, Afrologist

«Finita la salita, vicino alla grande pietra bianca in cima alla collina, il comandante Bébert si fermò, accaldato. Si tolse il basco, per asciugare i capelli al vento, e accese una sigaretta.
Da lassù, quando il tempo era bello e la nebbia si diradava, si vedeva tutto il Ruanda.»

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