Una famiglia metà limone e metà arancio nel Marocco di metà Novecento

Il paese degli altri ✏ Leila Slimani

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo

Tempo di lettura: 10 minuti

  • Marocco, Afrologist

Il paese degli altri, Leila Slimani, La nave di Teseo, 2020, traduzione dal francese di Anna D’Elia.

Leila Slimani nasce a Rabat, in Marocco, nel 1981, da padre banchiere e politico, e madre medico franco-algerina. Cresce in un ambiente francofono, con ottime letture a disposizione ed il sogno di diventare una scrittrice famosa, attratta com’era dalle vite spericolate dei grandi poeti e autori del passato, tra cui Beaudelaire e Georges Sand. Si trasferisce in Francia per gli studi universitari e si laurea in Scienze Politiche. In seguito si specializza in giornalismo e, tra il 2008 ed il 2012, avvia una collaborazione con la rivista Jeune Afrique. La passione per la scrittura la conduce ad effettuare uno stage presso l’atélier di Jean Marie Laclavetine di Gallimard che la indirizzerà definitivamente verso la letteratura.

Nel 2004 pubblica Nel giardino dell’orco, nel 2016 con Ninna Nanna vince il premio Goncourt, settima donna a riceverlo in 113 anni. Nel 2017 Macron le affida un ruolo prestigioso come rappresentante presidenziale per la francofonia. Nello stesso anno è inoltre insignita del titolo di Ufficiale delle Arti e delle Lettere della Repubblica. Il paese degli altri (La nave di Teseo, 2020) è il primo libro di una trilogia che accompagnerà i lettori dentro la saga familiare di Mathilde e Amin, dagli anni ’40 fino al 2015. Tradotta in 40 lingue, la Slimani è attualmente una delle autrici francesi più note.

Il periodo storico rievocato

Il sottotitolo dato a questo primo tomo è Guerra, guerra, guerra!, ispirato alle parole dell’attrice Vivien Leigh nell’atto di lamentarsi, in Via col vento, del fatto che gli uomini non si occupino mai di cose serie, ma solo di guerra per l’appunto.

La guerra è dentro questo romanzo, dall’inizio alla fine. È infatti a causa della guerra che Amin è partito dal Marocco per l’Europa a servire la Francia. Con lui furono circa 7000 i goumiers (da qùm, squadrone) ingaggiati in un conflitto che non apparteneva loro. Durante la liberazione dai nazisti, in Alsazia, Amin conosce Mathilde, la sua futura sposa, che lo seguirà in Marocco pronta a cominciare una nuova vita.

Vi è poi la guerra intima di ogni personaggio, come ha sottolineato in alcune interviste l’autrice. La guerra di sopravvivenza, la guerra contro gli invasori, la guerra contro la solitudine, la guerra contro le limitazioni e le costrizioni, la guerra contro i padroni e la guerra contro chi ti esclude e ti emargina.

La guerra è nell’aria anche nelle parti conclusive del libro, poiché ci si avvicina inesorabilmente agli anni della lotta dei nazionalisti marocchini per la liberazione dai Francesi. 

La guerra, dunque, è sotto traccia lungo l’intero romanzo: riemerge nei ricordi dei personaggi principali ed in certi loro tratti comportamentali, come anche in personaggi secondari che della guerra scontano le amare conseguenze, chi facendo proprio il linguaggio della violenza, chi costretto all’esilio in fuga dai suoi orrori.

Guerra e violenza, si è detto, e a tal binomio occorre aggiungere quello di colonialismo e violenza

L’avventura coloniale francese in Marocco è durata 44 anni, la metà dei quali passata a reprimere rivolte sia nel Rif che nelle zone montagnose. Un lasso di tempo breve per impiantare una colonia di popolamento e cambiare i connotati al Regno sceriffiano, ma d’altra parte troppo lungo, poiché quel mezzo secolo ha inciso profondamente su un popolo ed il suo modo di pensare se stesso e la propria storia, nonché di relazionarsi alla modernità e allo sviluppo.

Spinti dall’ideale civilizzatore (sic!), i Francesi operarono spoliazioni in tutti gli ambiti, ma i disastri maggiori riguardarono le terre. Riservarono le migliori per sé, lasciando ai coltivatori indigeni quelle improduttive e costringendoli all’umiliazione della migrazione verso le città, vecchie o nuove. Alcune città videro sorgere al proprio fianco nuove aree urbane riservate ai coloni, nell’ottica di una segregazione etnica e sociale marcata e senza appello: da un lato il mondo dei privilegiati, degli “pseudocolonizzatori” come li definisce Albert Memmi, e dall’altro le vecchie medine con i loro abitanti musulmani ed ebrei. Fes e Meknes furono tra queste città sdoppiate. Sul sito ufficiale della regione marocchina Fes-Meknes leggiamo a proposito di Meknes, dove è ambientato il romanzo della Slimani:

«La scelta di Lyautey di collocare una città nuova sulla riva destra (dell’Oued Bouferkrane, N.d.a.) non è correlata alle caratteristiche del sito, bensì alla concezione che i colonizzatori si sono fatti della città coloniale: la base militare Poublan davanti alla città indigena e la città nuova ben separata, sull’altipiano degli oliveti. Lyautey dichiarò inoltre: “Non metterò mano alla città araba e al quartiere ebraico… La pulirò e le darò una sistemata, le fornirò acqua, elettricità e vie fognarie, e basta. Ma di fronte ad essa costruirò un’altra città.”» (T.d.a)

In altri casi, come per Casablanca, dal progetto di ampliamento del porto e del traffico marittimo conseguì un aumento vertiginoso della popolazione e la creazione della prima banlieue urbana già negli anni ’20 del Novecento.

Il nazionalismo marocchino nel romanzo è un movimento carsico, che si palesa nel personaggio di Omar, fratello di Amin. Non si accenna al partito Istiqlàl (in ar. Indipendenza) ma si evidenziano il carattere clandestino della manovre dei nazionalisti e l’intensificarsi delle manifestazioni anti-Francesi negli anni ’50. Sullo sfondo compare anche il sultano Muhammad Ben Yousef, esiliato da Parigi in Madagascar e divenuto simbolo sacrale dell’unità nazionale.

«Muilala, di notte, saliva in terrazzo per scorgere il volto del sovrano riflesso nella luna. Non aveva apprezzato le risate di Mathilde quando lei si era messa a piangere a causa dell’esilio di Sidna Mohammed presso la “Madame Gascar”. Aveva capito benissimo che sua nuora non le dava credito quando lei raccontava che, all’arrivo di quest’ultimo in quella strana isola, popolata di negri, gli elefanti e le belve feroci si erano prostrati davanti al sultano deposto e alla sua famiglia. Mohammed, che Dio lo protegga sempre, aveva compiuto un miracolo sull’aereo che lo portava in quel luogo maledetto. Lui e la sua famiglia avevano rischiato di schiantarsi per un problema con il carburante, ma il sultano aveva posato il fazzoletto sulla carlinga e l’aereo era giunto a destinazione senza intoppi.»

Fu proprio la fede nel sultano e nel Profeta a convincere Muilala a lasciare che Omar sistemasse delle armi in una delle stanze della casa. Era il tragico momento di scegliere da che parte schierarsi, le manifestazioni anti-coloniali in Marocco si intensificavano:

«Giovani e vecchi, contadini scesi dalle montagne, borghesi e commercianti si ammassarono tutt’intorno alla piazza. Portavano bandiere, fotografie del sultano e urlavano: “Youssef! Youssef!” Alcuni reggevano dei bastoni, altri dei coltelli da macellai.»

Più difficile era la situazione di Amin, essendo sposato con una francese e avendo combattuto in passato per la Francia. In lui dominava la fervente aspirazione a diventare un grande possidente agricolo, al pari dei suoi vicini coloni. Era certo che il duro lavoro l’avrebbe ripagato, e anzi, si consumava nel lavoro per distanziarsi dai suoi connazionali, considerati dai Francesi pigri ed oziosi di natura.

Il romanzo si chiude nel 1955, a pochi mesi dall’ottenimento formale dell’indipendenza del Regno del Marocco, in un momento di grandi fermenti e paure condivise dagli schieramenti contrapposti, e anche da tutti coloro che, – troppo spesso dimenticati da una storia tranchante che non dà spazio alle sfumature -, avevano superato le divisioni coloni-colonizzati instaurando collaborazioni professionali, solidarietà di classe, relazioni di buon vicinato e rispettose amicizie.

«[…] in quell’estate del 1955, di sangue ce n’era parecchio. Scorreva nella città, dove si moltiplicavano gli omicidi per le strade, dove i corpi erano dilaniati dalle bombe. Si spandeva nelle campagne dove i raccolti venivano bruciati, i proprietari picchiati a morte. In quegli assassini si confondevano politica e vendette personali. Si uccideva in nome di Dio e della patria per cancellare un debito, per vendicarsi di un’umiliazione o dell’adulterio di una donna. Ai coloni sgozzati rispondevano i pestaggi e le torture. A furia di cambiare schieramento, la paura alla fine regnava ovunque.» 

Un vecchio conoscente marocchino, un giorno dell’estate del ’55, si presentò alla fattoria, profondamente inquieto, bisbigliando a Mathilde, che frattanto aveva preso ad aiutare i popolani fornendo loro medicinali e cure:

«Se un giorno verrò a trovarti, specie di notte, non aprire. Anche se sono io, anche se ti dico che è urgente, che qualcuno sta male e c’è bisogno di aiuto, mi raccomando tieni la porta chiusa. Avvisa i bambini, dillo alla domestica. Se dovessi venire, sarà per ucciderti. Perché alla fine avrò creduto a chi dice che, per andare in paradiso, bisogna uccidere i francesi.»

Trame sulla trama

Leila Slimani ha ripetutamente detto di non aver voluto dar vita ad un romanzo storico, ma di aver volutamente isolato i protagonisti affinché venisse esaltata la loro storia umana e universale, indipendentemente dal luogo e dal periodo in cui essi si trovano a vivere. Eppure, è forte il bisogno di raccontare quel preciso momento storico in Marocco, forse perché da sempre sacrificato nella narrazione pubblica alla più eclatante fase di decolonizzazione della vicina Algeria. È per questo che ritengo opportuno tornare su alcuni temi legati al romanzo, ma non esplicitati, volontariamente, dalla scrittrice.

Albert Memmi nel suo saggio fondamentale Il razzismo (Pagine d’Arte, Genova 2011), ci aiuta a comprendere le relazioni tra Francesi e marocchini nella fase storica vissuta da Amin e Mathilde:

«Così come la borghesia propone un’immagine del proletario, l’esistenza del colonizzatore richiede e impone un’immagine del colonizzato. Senza un alibi, il comportamento del colonizzatore e quello del borghese, la loro stessa esistenza, sembrerebbero scandalosi. […] Prendiamo come esempio, in questo ritratto-accusa, l’aspetto della pigrizia. Esso sembra raccogliere il consenso dei colonizzatori, dalla Liberia al Laos, passando per il Maghreb. […] Niente potrebbe legittimare il privilegio del colonizzatore meglio del suo lavoro, niente potrebbe giustificare l’indigenza del colonizzato meglio della sua oziosità. Il ritratto mitico di quest’ultimo annovererà quindi tra le sue caratteristiche un’incredibile pigrizia, quello del colonizzatore, invece, il gusto virtuoso per l’azione. […] La cosa sospetta (in quest’accusa di pigrizia) è che essa non colpisce solo il manovale agricolo o l’abitante delle bidonville, ma anche il professore, l’ingegnere e il medico e tutti gli individui del gruppo colonizzato. La cosa sospetta è l’unanimità dell’accusa e la globalità del suo oggetto in modo tale che nessun colonizzato ne è salvo, e non lo potrà mai essere.»

Lo stesso avviene esaminando un’altra caratteristica attribuita ai colonizzati, ossia l’ottusità:

«Quando il colonizzatore afferma, nel suo linguaggio, che il colonizzato è uno sciocco, suggerisce con questo che la sua deficienza richiede protezione. Da qui, non sto scherzando – l’ho sentito spesso – la nozione di protettorato. È nell’interesse stesso del colonizzato essere escluso dalle funzioni direttive, e che le responsabilità più pesanti siano riservate al colonizzatore. Quando questi aggiunge che il colonizzato è un arretrato perverso dagli istinti cattivi, ladro e anche un po’ sadico, legittima l’esistenza di una propria polizia e la sua giusta severità. […] Lo stesso vale per l’assenza dei bisogni del colonizzato, la sua inettitudine alle comodità, alla tecnica, al progresso, la sua sorprendente familiarità con la miseria: perché il colonizzatore dovrebbe preoccuparsi di ciò che non preoccupa nemmeno l’interessato?»

I meccanismi del Protettorato francese in Marocco, insomma, inculcano razzismo e impongono la netta separazione tra coloni e indigeni.

Amin e Mathilde, in questo quadro, sono un’eccezionalità. Lei francese e lui marocchino, uno schiaffo ai principi del colonialismo, da un lato, e uno all’orgoglio dei marocchini, dall’altro. La mixité si oppone idealmente alla fedeltà al gruppo di origine, ed entrambi i protagonisti saranno attraversati da rimorsi e dubbi sulla loro identità. Il loro legame, disperato, passionale, intriso di severità, supererà gli scogli dell’ostracismo subito in virtù di questa loro condizione ontologica di stranieri al gruppo, ma simili tra loro.

Mathilde non ha relazioni con gli altri francesi, poiché è mal considerata avendo sposato un indigeno e per di più di estrazione sociale non elevata. Vi è da dire che in Marocco le unioni tra coloni uomini e donne indigene non erano tanto stigmatizzate quanto le unioni inverse tra donne dei coloni e uomini indigeni. Ciò perché si attribuivano agli indigeni una sessualità potente e un alveo di mistero che creavano turbamento.

Amin era straniero in patria, perché per i Francesi aveva preso le armi e viaggiando in Europa a contatto con europei la sua mentalità era cambiata e non collimava più – per certi versi – con quella dei suoi corregionali.

La scelta di una vita ritirata in campagna a una ventina di chilometri dalla città, infine, ne aveva decretato una sorta di estraneità alle dinamiche storiche ed il conseguente ripiegamento sul proprio microcosmo, tra innovazioni agronomiche, investimenti mal riposti e ristrettezze economiche.

La loro primogenita, Aisha, è uno dei pochi legami con il mondo

Va a scuola in città, dalle suore, e matura un sentimento di fede devota, unito a un carattere selvatico e vivace. La sua figura dominata da una capigliatura chiara, ma folta e crespa, attira su di sé l’attenzione. Di fronte alle violenze esplose in città tra coloni e indigeni, consapevole della particolarità della sua famiglia – simile ad un innesto botanico tra limone e arancio sperimentato da Amin -, chiede al padre:

«E uccideranno anche noi?»

Vedremo come il personaggio evolverà nel secondo tomo, e cosa riserverà il futuro a questa famiglia emblema del mondo a venire, fatto di relazioni meticce, ed al contempo emblema del mondo come è sempre stato prima che gli uomini inventassero le differenze culturali.

Di certo i tempi erano cambiati repentinamente in Marocco, e il fato sarebbe stato ancor più imprevedibile per lei, non riservandole necessariamente lo stesso destino dei genitori.

Concludo con le parole di Mademoiselle Fabre, piccolo grande personaggio del libro, che qui si rivolge alla sorella minore di Amin, ma con un messaggio senza tempo e valevole per ogni giovane donna:

«I tempi sono cambiati. Non è tenuta ad avere lo stesso destino di sua madre. Potrebbe diventare qualcuno, un avvocato, una professoressa, un’infermiera! Persino un’aviatrice! Non ha sentito parlare di una ragazza, Touria Chaoui, che ha preso il brevetto di pilota ad appena sedici anni? Lei sarà ciò che vorrà diventare, a condizione di sforzarsi per ottenerlo. E non chieda mai, mai soldi a un uomo.»

Incipit

Marocco, Afrologist

«La prima volta che Mathilde andò a vedere la fattoria, pensò: “Troppo lontana.” Il fatto che fosse tanto isolata la preoccupava. All’epoca, nel 1947, non possedevano una macchina e avevano quindi dovuto percorrere i venticinque chilometri che li separavano da Meknes a bordo di un vecchio calesse, guidato da uno zingaro. Amin non faceva caso alla scomodità del sedile di legno né alla polvere che faceva tossire sua moglie. Non aveva occhi che per il paesaggio ed era impaziente d’arrivare alle terre che suo padre gli aveva lasciato.»

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