Vite segrete: istantanee letterarie dal Kenya
Un matrimonio benedetto ✏ Ngũgĩ wa Thiong’o
Un matrimonio benedetto, Ngũgĩ wa Thiong’o, Quarup, 2015, traduzione dall’inglese di Alessandro Agus e Marco Ferrazza.
Nel 2015 la casa editrice pescarese Quarup pubblica Un matrimonio benedetto del keniota Ngũgĩ wa Thiong’o, raccolta di tredici racconti apparsa per la prima volta nel 1975 nella prestigiosa collana African Writers Series della londinese Heinemann col titolo Secret Lives.
Tre sono i nuclei tematici in cui è strutturata la silloge: Madri e figli, Dominatori e vittime, Vite nascoste. I racconti sono polaroid che fotografano i tremolii sotterranei che agitano le vite di personaggi “ordinari” nel destabilizzante conflitto con una realtà disturbante dominata dalle strutture del sentire colonialista.
Fare letteratura in contesto coloniale
Per lo studioso di letterature anglofone Simon Gikandi, tre sono le istituzioni culturali che influenzarono la carriera letteraria di Ngũgĩ wa Thiong’o: la spinta evangelica della Chiesa, il prestigio simbolico della scuola dei missionari bianchi e il nazionalismo culturale Gikuyu. Si tratta, infatti, di elementi ben riconoscibili che attraversano lo spartito narrativo dell’opera in questione.
Nella cultura dell’imperialismo si forgiavano nuove narrative identitarie: l‘appartenenza alla Chiesa protestante e l’alfabetizzazione in lingua inglese erano le chiavi per accedere all’universo valoriale della “civiltà borghese”. Professare, nella lingua dei colonizzatori, la fede nel Dio cristiano equivaleva a manifestare pubblicamente la disponibilità a vivere una “vita moderna” libera dalle vecchie credenze.
Il nazionalismo culturale Gikuyu diventava, pertanto, uno spazio di resistenza contro il colonialismo e uno strumento per riarticolare forme collettive di autodeterminazione.
Ngũgĩ wa Thiong’o narratore rispettoso
In Madri e figli, Ngũgĩ wa Thiong’o affronta temi scottanti e racconta di donne che sperimentano il dolore per la scoperta della propria “sterilità” e la perdita di un figlio. Mukami, giovane sposa di Muthoga,
«un uomo che si era fatto da sé e che aveva quattro mogli ma anche la reputazione di maltrattarle»
vive con profonda vergogna la condizione di moglie amputata del “dono” della maternità. Abbandona la capanna familiare, trascina con sé nel cuore di una fitta boscaglia la sensazione di essere una donna fallita e innalza a Murungu, dio di Gikuyu, un canto di rabbia e di preghiera. Anche di Nnu Ego, personaggio del romanzo di Buchi Emecheta, The Joys of Motherhood (Heinemann, 1979), si dice che sia una donna fallita perché non ha un figlio per suo marito.
La mancata maternità suscita in Nyokabi, protagonista del secondo racconto di Madri e figli,
«un senso di irrimediabile perdita e di disperazione [che] come un grosso verme s’insinua violento fino al midollo delle sue ossa, e la divora piano piano.»
Il trauma della perdita e lo stigma sociale dell’infertilità sono narrati con una scrittura delicatamente empatica ma al tempo stesso ferma, decisa ad attraversare con ostinato coraggio le soglie del dolore altrui.
Racconti di donne
Le donne che popolano queste storie brevi sono il motore della narrazione. Protagonista di Qualche minuto di gloria, racconto che inaugura la sezione di Vite segrete, è Wanjiru
«ma lei preferiva il suo nome da battezzata cristiana, Beatrice, che le suonava più puro e più bello.»
Wanjiru/Beatrice, “uccello ferito in volo”, faceva la cameriera. Serviva birre in vari bar tra Limuru e Ilmorog. Viveva male la competizione con Nyaguthi, una collega bella e sdegnosa che attirava clienti sempre nuovi nei locali in cui trovava impiego. Il loro lavoro cominciava dietro ad un bancone ma poteva anche finire sotto le lenzuola se l’avventore di turno fosse stato in cerca di avventure nemmeno troppo romantiche.
Nella scrittura di Ngũgĩ wa Thiong’o non v’è accento alcuno di paternalismo né di condanna morale. Non v’è sterilità emotiva nella compartecipazione alle delusioni che segnano Beatrice “nel sottomondo di violenza e sesso delle birrerie”.
Identità in rivolta
Creme sbiancanti e parrucche coi capelli lisci a rincorrere l’effetto tricologico delle chiome di europee e indiane delimitavano i confini del ristretto universo estetico delle bariste keniote. Beatrice sapeva che gli uomini di Ilmorog e dintorni preferivano le “sbiancate” e utilizzava parte dei suoi guadagni per acquistare creme che a poco poco provavano a nascondere la nerezza del suo corpo. Eppure, in quella specie di rituale di purificazione cui non si sottraeva,
«non riuscì mai a capire l’origine del disprezzo che i neri avevano per se stessi.»
In questo passaggio si può cogliere un’anticipazione delle critiche al vetriolo che, nel giro di qualche anno, Dambudzo Marechera ne La casa della fame, avrebbe espresso contro il “bombardamento mediatico” cui viene sottoposta la donna nera costretta ad omologarsi a canoni di bellezza eurocentrici. Ngũgĩ wa Thiong’o colloca la storia di Wanjiru-Beatrice all’interno di una cornice in cui i dispositivi di genere, razza e classe, potenziati dal sistema di dominio coloniale, generavano profonde fratture identitarie. Wanjiru era “l’altra da sé”: si riconosceva e si accettava solo come “Beatrice”.
In quanto donna, era oggetto di un’economia del desiderio che fissava il prezzo di ciascun corpo in base alla quantità di crema sbiancante che lo stesso riusciva ad assorbire per apparire ad ogni utilizzo “più puro”.
Quell’economia del desiderio funzionava secondo una logica spietatamente concorrenziale che non ammetteva l’esistenza di un cartello solidaristico tra donne nere e povere. Bisognava scongiurare il rischio di essere espulse da quel sottomondo perché quel sottomondo, coi suoi piccoli intrighi, con la banalità della violenza di cui si alimentava, restava l’unico spazio abitabile. Wanjiru tentò di ribellarsi al sistema quando sottrasse ad un camionista tirchio e avaro di cuore cinque banconote con cui acquistò vestiti nuovi, calze e sandali col tacco. Nel giro di pochi giorni fu arrestata con l’accusa di aver attentato alla proprietà privata derubando un uomo “virtuoso”.
Una playlist sonora
Alcuni racconti contengono precisi riferimenti musicali. Wariuki, protagonista de Un matrimonio benedetto, “gorgheggiava alla Jimmie Rodgers”, il bianco del Mississippi che cantava:
“Black, black is the colour
of my true love’s hair,
her lips are like two roses fair
with the prettiest face and the neatest hands”
“Beatrice” al jukebox ascoltava una ballata di Robinson Mwangi, confronto in musica tra le ragazze delle fattorie e quelle di città. I dischi di Joseph Kamaru risuonavano nei bar dei quartieri periferici di Nairobi.
Il riferimento alla musica di Kamaru non è, forse, del tutto casuale. La carriera cantautorale dello stesso Kamaru – da cantore della nuova nazione kenyana al ritmo di benga, genere derivato dalla rumba congolese, a cantante di gospel – è rivelatrice delle contraddizioni che attanagliano i Paesi sorti dal processo di decolonizzazione. Ngũgĩ wa Thiong’o non poteva di certo immaginare in che direzione si sarebbe orientata la carriera di Kamaru quando diede alle stampe Secret Lives ma è proprio nelle pieghe delle umane vicende che si nascondono i segreti e i tormenti di una vita intera.✎
Incipit
«Mukami era in piedi sull’uscio di casa. Voltò la testa lentamente, con un’aria triste, e guardò il focolare. Un’esitazione passeggera. Il fuoco che covava sotto la cenere, e lo sgabello che era accanto al camino, la richiamavano indietro. Ma no. Ormai aveva preso la decisione. Doveva andare. Si era messa in testa un copricapo logoro e unto che le ricadeva in parte lungo le giovani spalle magre, poi si era tuffata nel buio selvaggio e solitario.»
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