Vuoi che andiamo a rubare un po’ di guave?

C’è bisogno di nuovi nomi ✏ NoViolet Bulawayo

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CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo

Tempo di lettura: 6 minuti

  • guave, Afrologist

C’è bisogno di nuovi nomi, NoViolet Bulawayo, Bompiani, 2014, traduzione dall’inglese di Elena Malanga.

Ho di recente scoperto che i romanzi scritti dal punto di vista di un bambino, meglio ancora se bambina, mi intrigano moltissimo. Non parlo di letteratura per ragazzi, ma di quella narrativa per adulti raccontata attraverso gli occhi, le parole e i concetti di un narratore bambino o tuttalpiù ragazzino. Dopo l’Ibisco viola di Chimamanda Ngozi Adichie, La vita davanti a sé di Romain Gary, e i più classici Grandi speranze di Charles Dickens e Il barone rampante di Italo Calvino (tanto per nominare alcuni titoli celebri), ho finalmente letto C’è bisogno di nuovi nomi, romanzo d’esordio della scrittrice zimbabwese NoViolet Bulawayo, uscito ormai cinque anni fa.

«Oggi rubiamo guave giganti. Sono guave grandi, come il pugno di un uomo arrabbiato, e quando maturano non diventano gialle come quelle normali. Rimangono verdi all’esterno e rosa e molli all’interno, e sono così buone che neanche riesco a spiegarlo.»

Fin dalla prima riga, il nostro sguardo sul mondo scende al metro e venti circa, allo stesso livello di quello dei protagonisti: un gruppetto di bambini irriverenti tra i 9 e gli 11 anni che, in stile “le simpatiche canaglie”, fanno esattamente ciò che fanno i bambini della loro età. Giocano. Esplorano. Si interrogano su questioni importanti. Leggono il mondo degli adulti con occhi limpidi e disinteressati. E normalizzano scene raccapriccianti, ancora sguarniti degli strumenti per comprenderle e valutarne la gravità. Tornerò in seguito su questo punto e sulla sua forza narrativa.

Siamo a Paradise, baraccopoli ben lontana da qualsiasi idea di “paradiso”, in una città non ben definita dello Zimbabwe tra il 2008 e il 2015. Insieme a Darling, l’io narrante, e a Chipo, Bastard, Diolosà, Sbho e Stina, esploriamo anche altri quartieri e spazi urbani: dal quartiere benestante e di memoria coloniale, Budapest, dove «mi aspetto sempre che le strade pulite ci sputino addosso e ci dicano di tornarcene da dove siamo venuti», al quartiere Shangai, dove «i cinesi sono dappertutto con le loro uniformi gialle e gli elmetti arancioni. Non ce ne sono tantissimi, ma da come corrono a destra e a sinistra sembrano di più».

Leggendo, rimaniamo impregnati degli odori, dei colori, della terra e del fango insieme a loro, sempre intenti a rubare guave o spensierati in un nuovo gioco, come il Gioco delle nazioni, Trova Bin Laden o palla avvelenata per evitare di sentire i morsi della fame e di annoiarsi a morte. Le scuole sono infatti chiuse, e non per le vacanze.

«Paradise è tutta lamiera e si allunga al sole come una pelle di pecora bagnata inchiodata a terra ad asciugare. Le baracche hanno il colore fangoso delle pozzanghere dopo la pioggia. Sono terribili, ma viste da qui sono meglio, quasi belle, sembrano un quadro.»

Sullo sfondo, troviamo uno Zimbabwe ancora in mano a Mugabe, movimenti di protesta e promesse di “cambiamento, cambiamento vero”, la diffusione dell’AIDS, emigrazioni massicce di lavoratori verso il Sudafrica, “white saviour” di ONG occidentali che pensano più a scattare fotografie a bambini sporchi e malvestiti che ad altro, e una crescente insofferenza nei confronti dei bianchi rimasti o di seconda e terza generazione. Tutto ciò viene raccontato indirettamente, carpito dagli occhi e dalle orecchie di Darling mentre osserva e ascolta gli adulti. E così, senza fronzoli, viene riportato al lettore, talvolta con curiose e del tutto sensate rielaborazioni. 

«Se rubi è meglio che sia qualcosa di piccolo che si può nascondere o che si può mangiare in fretta e far fuori subito come le guave. Così nessuno ti vede con in mano quello che hai rubato e nessuno ti può dire che sei un ladro senza vergogna o che gli hai rubato qualcosa, quindi non capisco che cosa volevano fare i bianchi quando invece di rubare una cosa piccola hanno rubato un’intera nazione. Chi si dimentica che hai rubato una cosa del genere?»

La forza narrativa di una voce bambina è proprio questa: il poter affrontare tantissime tematiche sociali, politiche e umane senza giudizio, pesantezza e preconcetti. Ma trasmettendo comunque un messaggio, stimolando la riflessione. L’autrice in questo è riuscita a rendere con la scrittura tutta la leggerezza, la limpidezza dello sguardo dei bambini anche di fronte a scene raccapriccianti come quella di uno stupro “esorcizzatore” del Profeta Bitchington Mborro Rivelazione durante una messa, o la vista di una donna impiccatasi nella boscaglia. Il cambio molto veloce di scena, il ritorno al riso e al gioco, sono molto stranianti per il lettore adulto, ma allo stesso tempo ben rendono l’incapacità di un bambino di analizzare in profondità e capire la gravità di alcune situazioni, soprattutto di fronte alla normalizzazione da parte dell’ambiente circostante. 

La narrazione è un flusso di coscienza, inframmezzato da dialoghi che, anche se non sono segnalati da virgolette, sono perfettamente comprensibili e scorrevoli. Altro dettaglio del romanzo che mi è piaciuto moltissimo e che lo rende particolarmente godibile.

«È così che ha fatto mio nonno, ero tornata dopo che avevamo giocato a Trova Bin Laden, mia nonna non c’era e lui mi è saltato addosso, mi ha sbattuto a terra, mi ha messo la mano sulla bocca e pesava come una montagna, dice Chipo con le parole che le escono tutte insieme come fosse Nostra Signora delle Ossa. La guardo e vedo sulla sua faccia uno sguardo che non ho mai visto prima, di dolore. Vorrei sorridere perché le è tornata la voce, ma il suo sguardo mi confonde, e mi rendo conto che si aspetta che io dica qualcosa, magari di importante, così le dico: Vuoi che andiamo a rubare un po’ di guave?»

Darling ha poi un chiodo fisso: quello di andare in America da zia Fostalina e realizzare i suoi sogni. La seconda parte del romanzo è quindi ambientata interamente negli Stati Uniti e ritrae il passaggio da bambina a ragazzina della protagonista e la sua tensione tra il rimanere fedele a chi era, ai suoi amici e alla sua casa, e le inevitabili trasformazioni dell’adolescenza e i cambiamenti portati dal contatto con nuove persone, un nuovo contesto e i membri della famiglia plurinazionale della zia. Ho scelto di concentrarmi meno su questa metà del romanzo, ritenendola meno interessante e originale, soprattutto rispetto ad altre opere che affrontano simili shock culturali ed esperienze di emigrazioni al di fuori del continente africano. Unico e inimitabile in questo senso, Americanah della nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, uscito l’anno precedente (2013).

Emigrata lei stessa per studio negli Stati Uniti, NoViolet Bulawayo – all’anagrafe Elizabeth Zandile Tshele – ha sicuramente molto altro in serbo per noi lettori. C’è bisogno di nuovi nomi stesso infatti, nacque da un breve racconto dal titolo Hitting Budapest pubblicato sul Boston Review, divenuto poi il primo capitolo del romanzo, e valse all’autrice il Caine Prize for African Writing già nel 2011. Perciò, non dobbiamo fare altro che aspettare il prossimo romanzo, sperando conservi la stessa creatività e sguardo sul mondo, quello dei bambini.✎

Incipit

guave, Afrologist

«Stiamo andando a Budapest: Bastard, Chipo, Diolosà, Sbho, Stina e io. Stiamo andando anche se non abbiamo il permesso di attraversare Mzilikazi Road, anche se Bastard dovrebbe badare a Frazione, la sorellina, anche se Mamma mi ammazzerebbe se lo venisse a sapere. Stiamo semplicemente andando. A Budapest ci sono guave da rubare e adesso come adesso morirei per delle guave. Stamattina non abbiamo mangiato ed è come se qualcuno mi avesse svuotato lo stomaco con un badile.»

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  1. […] già parlato della mia passione per questo genere di opere in un’altra recensione, quella di C’è bisogno di nuovi nomi di NoViolet Bulawayo. In questo senso, I pescatori del nigeriano Chigozie Obioma edito in Italia da Bompiani (2016), […]

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